sabato 25 dicembre 2010

Seneca: la ricetta per vivere in eterno


Sono convinto che perseguire la conoscenza è un comandamento a cui tutti, secondo natura, dobbiamo sottostare. Come ogni altro essere vivente, l'uomo ubbidisce ad una legge a cui non può sottrarsi: riprodursi e propagarsi. Ogni specie adotta le sue strategie e ha i suoi atout, le sue specialità, per sopravvivere e generare altra vita.
La specialità del genere umano è l'intelligenza, ma dato che tutta la vita non gli basta per conoscere, deve lasciare il testimone a quelli che verranno dopo di lui.  Dunque, è necessario creare quelli che verranno dopo. Ecco che il metazoo vertebrato mammifero primate Homo Sapiens utilizza la sua specializzazione biologica per non estinguersi.
Il premio è l'eternità, perché in questo succedersi di intelligenze che si sommano la dimensione tempo scompare: non è più il mio tempo ma il tempo dell'uomo. Il sempre che si sostituisce all'ieri, all'oggi e al domani. 
Devo dire che quando uno pensa cose così, è sempre dubbioso di essere un po' fuori di testa. Perciò, quando ho scoperto che Lucio Anneo Seneca le ha dette incomparabilmente meglio di me duemila anni fa, ho provato una grande emozione.
Vorrei rendervene partecipi lasciando la parola a lui: ho estratto brani dal De brevitate vitae cercando di dare continuità al discorso e mi sono preso pure la libertà, per rendere più fruibile il suo pensiero, di apportare piccole modifiche alla bella traduzione di Tommaso Gazzarri.
E' con grande piacere che cedo lo spazio del blog al Maestro:                    

I soli che possono affermare di disporre del proprio tempo sono quelli che si dedicano all'esercizio della conoscenza, sono i soli a vivere davvero. Perché non hanno cura soltanto della loro vita: aggiungono ogni vita alla propria. Fanno tesoro di ogni anno che è trascorso prima di loro.

A meno di non essere sommamente ingrati, dobbiamo riconoscere che gli iniziatori e i continuatori delle grandi dottrine sono nati per noi, ci hanno preparato a vivere la vita. E' il loro impegno che ci consente di raggiungere mete straordinarie che dalle tenebre sono restituite alla luce; nessuna epoca ci è preclusa, siamo ammessi a tutte, e se ci piace uscire dalle miserie dell'umana fragilità per mezzo della grandezza d'animo, molto è il tempo per il quale spaziare.

Possiamo dialogare con Socrate, dubitare con Carneade, trovar pace con Epicuro, dominare la natura umana con gli stoici, oltrepassare i confini con i cinici. Visto che la natura ci permette di accedere a questo possesso comune di ogni tempo, perché non ci volgiamo con tutto l'animo, movendo da questo misero e caduco volgere di tempo, verso ciò che è immenso, che è eterno, che possiamo dividere con gli spiriti migliori?

Sono davvero impegnati coloro che ogni giorno vorranno coltivare la più stretta intimità con Zenone, Pitagora e Democrito e gli altri sacerdoti della conoscenza come Aristotele e Teofrasto. Nessuno di loro si negherà, nessuno di loro congederà chi gli fa visita senza averlo reso più felice e amico, nessuno di loro vorrà mai che riparta a mani vuote. E' possibile frequentarli di notte come di giorno.
Nessuno di loro ti costringerà a morire, tutti te lo insegneranno, nessuno di loro consumerà i tuoi anni, tutti aggiungeranno i loro ai tuoi, nessuna conversazione con loro sarà foriera di pericoli, non pagherai la loro amicizia con la vita, il rendergli omaggio non sarà costoso. Prenderai da loro tutto ciò che vorrai. Non saranno loro a impedirti di attingere a tuo piacimento. Quale serenità, quale bella vecchiaia attende chi si è messo sotto la loro protezione!

Siamo soliti dire che non abbiamo potuto scegliere i genitori, ma che ci sono stati dati a caso; ma per gli uomini virtuosi è possibile nascere secondo il proprio arbitrio. Vi sono famiglie di nobilissimi ingegni: scegli quella in cui vuoi essere adottato. L'adozione non sarà solo di nome ma comprenderà proprio quei beni che non dovrai custodire squallidamente e con taccagneria: si accresceranno quanto più li metterai in comune. Quelli ti offriranno una via verso l'eternità, e ti eleveranno a quel luogo dal quale nessuno può essere precipitato. Questo è l'unico modo di prolungare la condizione mortale, anzi di trasformarla in immortalità.

La vita del saggio è dunque assai estesa, non è imprigionata dagli stessi limiti degli altri: lui solo non deve sottostare alle leggi del genere umano, tutti i secoli gli ubbidiscono quasi fosse un dio.
E' trascorso un certo tempo? Lo fa suo col ricordo. E' presente? Se ne avvale. Ha da venire? Lo pregusta. La capacità di riunire insieme tutte le dimensioni del tempo gli rende la vita lunga.

Al contrario, è brevissima e intrisa di preoccupazioni la vita di coloro i quali disconoscono il passato, non si curano del presente, hanno timore del futuro. Quando giungono alla fine, quei disgraziati si accorgono troppo tardi di aver impiegato il loro tempo a non far nulla. I loro stessi desideri sono pieni di paure e agitati da mille timori. E proprio nel massimo momento di godimento si insinua il pensiero angoscioso: "Tutto questo quanto durerà?"

Concludo con l'augurio a tutti i pensanti che trovino il tempo, la voglia, e l'emozione di far proprio questo messaggio che ci renderebbe tutti infinitamente migliori.

Post correlato: La Scuola di Atene


Brani tratti da De brevitate vitae, traduzione di Tommaso Gazzarri, ed. Mondadori.

sabato 18 dicembre 2010

UBS: a grandi passi verso il passato


Spero che facciano il giro del mondo le 44 pagine del "codice di abbigliamento" recentemente distribuito alle truppe UBS. Sarebbero da spanciarsi dal ridere se non fossero invece una testimonianza dei tempi cupi che viviamo. Il documento originale del codice, in francese, lo trovate qui.

Scritto con cura maniacale, descrive nel più piccolo dettaglio, fino ai peli del naso (è vero, non è una battuta), come deve apparire un perfetto soldatino UBS: da come fare il nodo della cravatta (rigorosamente griffata UBS) a quanti accessori possono indossare le signore, quanti i signori, il colore della biancheria intima, delle calze, i centimetri del polsino che devono sporgere dalla manica della giacca, quanti bottoni della giacca devono essere abbottonati (ma attenzione, da sbottonare quando seduti!), come ci si pettina, ci si lava, ci si profuma, quanto aglio e cipolla (non) è consentito mangiare.


Il capolavoro: le signore soldatesse non cedano alla tentazione di "provare profumi nuovi durante la pausa pranzo". Potrebbro rovinare l'aroma UBS.
La saggia considerazione che indossare un orologio "suggerisce affidabilità e grande cura della puntualità" è accompagnata da un oscuro avvertimento: "purché non sia una minaccia per la sicurezza del lavoro". Forse bisognerebbe spiegare a UBS che non tutte le cose che ticchettano sono bombe.

E' assolutamente incredibile, sembra uno scherzo ma è tutto vero. Ma l'apoteosi giunge quando il meticoloso estensore del codice UBS si fa prendere la mano e scala vette spirituali: "un'apparenza impeccabile procura la pace interiore".
Il parallelo con i "fogli di disposizioni" di Achille Starace, di fascistissima memoria, è inevitabile e impressionante.


Eccovi alcuni estratti testuali dal codice UBS e dal "Vademecum dello Stile Fascista" (VSF), a voi giudicare:

UBS: "Indossare la cravatta UBS è assolutamente imperativo."
VSF: "E' fatto assoluto divieto di portare il collo della camicia nera inamidato."
UBS: "Il colletto della camicia deve spuntare per 1 - 1,5 centimetri dal collo della giacca."
VSF: "Spesso in luogo del prescritto pantalone nero lungo, o del pantalone nero corto, con stivali neri, viene indossato un pantalone a righe, residuo di tight!!! Il commento è superfluo."
UBS: "Indossare una cintura nera è sempre obbligatorio."
VSF: "Nelle cerimonie ufficiali niente tubi di stufa sulla testa, ma la semplice camicia nera."  

Mi pare superato ogni limite di ragionevolezza; anzi di ragione non ce n'è più traccia. Una delle raccomandazioni recita che una giacca dalle spalle troppo larghe, "fa apparire la testa troppo piccola". Ci sono altre cose, cara UBS, che fanno apparire la testa ancora più piccola.

mercoledì 8 dicembre 2010

I miracoli li fa solo la scienza


Tutto arriva a chi sa aspettare, e la scienza non delude. Ecco la storia di un miracolo che miracolo non fu.

Alla fine della prima guerra mondiale si contarono in Europa circa 8.000.000 di combattenti morti, ovviamente quasi solo maschi. Negli anni tra il 1915 e il 1925, "miracolosamente" le nascite di figli maschi s'impennarono paurosamente, come a bilanciare di nuovo il rapporto maschi/femmine normale. Lo stesso accadde, sia pure in misura minore, negli anni tra il 1945 e il 1950:

(clicca per ingrandire)

Ovviamente, il fenomeno fu portato ad esempio dell'intervento della divina provvidenza che tutto sa, tutto vede e opera di conseguenza (già che c'era, avrebbe potuto non far scoppiare la guerra, non era più facile?).
Purtroppo per questa tesi fideistica, uno studio del 2008 dell'Università di Newcastle ci spiega in maniera molto convincente che cosa è accaduto.         

Come si sa, il sesso del nascituro è determinato dal cromosoma (X o Y) che viene trasmesso dal padre. Si è sempre pensato, prima di questo studio, che la quantità di cromosomi X e Y che viene trasmessa all'atto della fecondazione è più o meno uguale ed è il caso a determinare quale sarà il cromosoma "fortunato".
Lo studio in questione ha studiato la genealogia di un migliaio di famiglie, risalendo fino al 1600, per scoprire che chi ha più fratelli tende a generare figli maschi e chi ha più sorelle tende a generare figlie femmine. Questo fa presupporre l'esistenza di un gene, cosiddetto del "fiocco azzurro" che determina una maggiore quantità di cromosomi Y trasmessi. I portatori del gene tenderanno a generare più figli maschi.

Supponiamo che nel 1914, allo scoppio della guerra, ci sia stata una famiglia con tre figli maschi e una femmina e un'altra con tre figlie femmine e un maschio (quattro figli sono un numero normale per l'epoca). Nella prima famiglia il papà e i figli maschi sono evidentemente portatori del gene "fiocco azzurro", nella seconda no. Se tutti i maschi sono partiti per la guerra, in quale delle due famiglie è più probabile che almeno un maschio faccia ritorno a casa sano e salvo?
Ecco che dopo la guerra la popolazione maschile in età riproduttiva subisce un forte sbilanciamento verso i portatori del "fiocco azzurro" e, di conseguenza, il numero di nascite maschili registra un forte incremento.

E' possibile, ma questa è una speculazione tutta mia, che il gene abbia avuto una valenza in tempi molto remoti, quando per centinaia di migliaia di anni i maschi erano tutti in giro a cacciare e le femmine tutte a "casa" ad accudire i  piccoli. Esposti alle intemperie e alle catastrofi naturali, i poveri maschi potevano essere decimati da alluvioni, incendi, eruzioni vulcaniche, terremoti e guerre territoriali. Chissà, forse il Neanderthal non aveva il "fioccco azzurro" e per questo è scomparso.
E' solo una teoria, il gene "fiocco azzurro" non è stato ancora identificato. Ma i dati genealogici raccolti parlano molto chiaro.
E' come quando si ipotizza l'esistenza di un pianeta solo per la perturbazione delle orbite degli altri, non per evidenza diretta: è il caso di Nettuno, scoperto nel 1846 esattamente nel punto dove si ipotizzava la sua esistenza perché le orbite degli altri pianeti, perturbate, facevano ritenere che fosse proprio lì.

Resto in fiduciosa attesa dell'evidenza del gene "fiocco azzurro". Preferisco aspettare una risposta che arriverà piuttosto che cercarne di più facili e immediate.
            

giovedì 2 dicembre 2010

Accademia della raccolta differenziata

Solo un brevissimo post per esporre semplicemente un fatto, senza nessuna opinione e neanche un'impressione.

Dunque, ho trovato su internet una meravigliosa guida alla raccolta differenziata dei rifiuti. E' talmente bella che ve la faccio vedere. Nella prima pagina (che vedete sopra) si vedono i colori di riferimento per identificare il tipo di rifiuto, e nella seconda le regole di consegna, sia a domicilio che nelle "isole ecologiche attrezzate" dove puoi portare qualunque tipo di rifuto e trovi la consulenza per differenziarlo: 


Dalla pagina 3 comincia un'impressionante lista alfabetica che dura parecchie pagine dove si può trovare qualunque rifiuto immaginabile e le regole di trattamento. Io per esempio ho avuto una risposta ad un vecchio dilemma personale: dove devo gettare una lampadina? Ecco una delle pagine alfabetiche:


Bella, vero? Adesso andate a vedere dove l'ho trovata:  qui.

Falla spazio-temporale di un universo parallelo? Come al solito, non so.

domenica 28 novembre 2010

Sapete qual è il documento più tradotto al mondo?


La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è tradotta in 375 lingue e dialetti, più della Bibbia. Volete leggere l'articolo 1 in sardo?

Artìculu 1
Totu sos èsseres umanos naschint lìberos e eguales in dinnidade e in deretos. Issos tenent sa resone e sa cussèntzia e depent operare s'unu cun s'àteru cun ispìritu de fraternidade.

Volete leggere l'articolo 7 in Romancio?

Artichel set. (7)
Tuots umans sun eguals davant la ledscha ed han il dret da gnir protets egualmaing da la ledscha sainza ingüna distincziun. Tuots han il dret da gnir protets egualmaing cunter mincha discriminaziun chi violess quista Decleranza e cunter mincha provocaziun ad üna tala discriminaziun.   

E, finalmente, volete leggere gli articoli 1 e 7 in italiano?

Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

In che modo i paesi membri dell'ONU sono vincolati dalla Dichiarazione? Non è un trattato, quindi non è vincolante per i paesi membri ma è un principio fondante dell'ONU dal 1948. E' fondante perché definisce in maniera inequivocabile i termini "libertà fondamentali" e "diritti umani". In altre parole, se è vero che dalla Dichiarazione non scaturiscono obblighi per i paesi membri, tutti però aderiscono ad una comune definizione dei concetti. Un paese membro non potrà accampare la scusa di non sapere che un certo principio facesse parte dei Diritti Umani.
Ne deriva anche che l'ONU può fare pressione su un paese che non li rispetti, riferendosi ad una ben precisa e condivisa lista di princìpi.

Di più: dai princìpi della dichiarazione scaturisce la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1976, e questa sì che è vincolante: è un trattato. I paesi membri dell'ONU, in maggioranza ma non tutti, vi hanno aderito. Un esempio a caso di un paese diligente: la Svizzera, che l'ha ratificata nel 1992, dieci anni prima di entrare a pieno titolo a far parte dell'ONU.
Sempre scegliendo a caso, vi cito un articolo della Convenzione:

Article 14
All persons shall be equal before the courts and tribunals.   
(L'articolo è molto più lungo ma la prima frase ci basta).

Mettiamo l'improbabile caso che in un paese ratificante fosse introdotta una discriminazione per gli stranieri davanti alla legge, mettiamo che addirittura un paese inserisse questa discriminazione nella sua Costituzione (ma che dici, sei matto?), allora questo costituirebbe una violazione di una Convenzione Internazionale, soggetta a sanzioni da parte dell'ONU.
    
Domanda: ma tutta questa roba è insegnata a scuola? Non credo, ma spero in smentite.   

Ogni riferimento a quanto accaduto oggi in Svizzera è fortemente voluto.

sabato 20 novembre 2010

Antropologia e razzismo non hanno nulla da dirsi

Vorrei proporvi una riflessione sul passato del genere Homo e qualche speculazione sul suo possibile futuro in senso evoluzionistico, ammesso che noi Sapiens lasciassimo tempo al tempo e non ponessimo fine anticipatamente all'avventura umana, cosa che ha purtroppo notevoli probabilità di accadere. Sarebbe ancora più amaro se trascinassimo con noi nel baratro tutte le altre specie viventi che nulla hanno fatto per meritarlo. Noi, ahimé, sì.

Ricostruzione di un giovane Neanderthal

L'Homo Neanderthalensis si è estinto qualcosa come 25.000 anni fa, non sappiamo perché. Non è stato quindi un nostro progenitore, ma un nostro cugino nel cespuglio dell'evoluzione e abbiamo convissuto a lungo. Oggi si pensa che per 100.000 anni Sapiens e Neanderthal abbiano abitato insieme il continente euroasiatico e si siano anche ibridati tra di loro, prova ne sia l'accertata presenza di geni neanderthaliani nel nostro genoma.
In passato si è creduto che il Neanderthal non avesse sviluppato una "cultura" ma studi più recenti, compresi i ritrovamenti di arte figurativa e di un flauto costruito con un osso, gli assegnano una capacità intellettiva pari alla nostra ed un aspetto molto simile, al punto che il paleontologo William Straus afferma che "se un Neanderthal si potesse reincarnare e porre nella metropolitana di New York, opportunamente lavato, sbarbato e modernamente vestito, si dubita che potrebbe attrarre alcuna attenzione".
L'estinzione dei Neanderthal è uno degli enigmi dell'antropologia oggi piû studiati: ci piacerebbe sapere almeno se si è estinto per colpa nostra.

Ancora più sorprendente è una storia di molto molto tempo prima: la coesistenza del nostro progenitore Homo Erectus con l'Australopithecus Robustus, durata qualcosa come un milione di anni, e finita più o meno un milione di anni fa con l'estinzione del Robustus.

Homo Erectus

Australopithecus Robustus

Qui le cose sono molto diverse rispetto alla rapporto Neanderthal-Sapiens: il Robustus aveva una capacità cranica di 1/3 rispetto all'Erectus ed era oggettivamente una specie inferiore in quanto a intelletto, più vicino a quello di uno scimpanzé che a quello di un uomo. Anche per il Robustus, il motivo dell'estinzione è ignoto e molto più difficilmente indagabile a causa dell'enormità di tempo trascorsa.
Comunque ora abbiamo capito che non dobbiamo più pensare all'evoluzione come un unico binario di storia in cui una specie si succede ad un altra. La coesistenza, il parallelismo temporale, sono la normalità. 

A che ci serve questo noioso ripasso di paleoantropologia?  A fare una riflessione e porci una domanda cruciale.
Il fatto che noi siamo l'unica specie vivente di Homo è una contingenza della storia. Le cose sarebbero potute senz'altro andare diversamente e non è escluso che vadano diversamente in futuro, sempre che riusciamo ad allontanare la fine del pianeta. Non possiamo escludere che in un futuro molto lontano un altro primate si evolva in un'altra specie di Homo, con caratteristiche molto diverse dalle nostre.
Scrive Stephen Jay Gould, un grande divulgatore nonché biologo e zoologo: "il Robustus sarebbe potuto benissimo sopravvivere e oggi ci porrebbe di fronte a tutti i dilemmi etici di una specie umana realmente e marcatamente inferiore come intelligenza. Avremmo costruito zoo, costituito delle riserve, promosso la schiavitù, commesso dei genocidi, o forse praticato la gentilezza?"

Ragionando in grandi scale di tempo e di spazio, si vede quanto misero e artificiale sia il razzismo contemporaneo: le cosiddette "razze" umane non esistono; sempre Gould afferma che non c'è un solo gene dell'Homo Sapiens che esista solo in un gruppo e non esista in nessun altro gruppo. Al punto che un genetista di cui purtroppo non ricordo il nome ha detto che se, per assurdo, tutta l'umanità si estinguesse tranne una singola tribù dell'Africa centrale, l'intero patrimonio genetico dell'uomo sarebbe comunque salvo. Einstein e Madre Teresa potrebbero ancora nascere.
Che faremmo oggi se avessimo accanto a noi un Homo veramente inferiore? Meno male che non conosciamo la risposta. 

E, per finire, la storia dell'evoluzione dei primati ci insegna anche un'altra cosa: se noi ci estinguessimo non è detto che sarebbe finita lì. Un altro Homo prenderebbe forse il nostro posto; non è solo per i nostri figli che dobbiamo aver cura della Terra.
Dobbiamo conservare il mondo per altre donne e uomini che oggi non immaginiamo e che, speriamo, avranno ereditato da noi solo le cose belle e dimenticato le altre. 


Tutte le illustrazioni sono tratte da Wikipedia

sabato 13 novembre 2010

E se ce ne andassimo?


L'argomento è serio, ma non leggete questo post se non siete abbondantemente visionari, al limite del fuori di zucca, come me (e per fortuna qualcun altro).

La storia, forse ne avete letto, è quella del progetto "100-year Starship" che è stato ufficialmente annunciato dal Pentagono e dalla NASA e che prevede uno studio multidisciplinare che durerà un secolo, alla fine del quale un'astronave lascerà la Terra per colonizzare altri pianeti, possibilmente fuori dal sistema solare. Il viaggio sarà, dichiaratamente, "one way"; l'astronave, con tutto il suo contenuto umano, non tornerà mai più indietro.

Se avete proseguito nella lettura nonostante l'avvertimento iniziale e state sghignazzando, non siete visionari e vi state pure chiedendo se si possa mai parlare di queste idiozie con tutti i problemi che affliggono i normo-pensanti. Ma un altro stravago-pensante, Stephen Hawking, ha chiaramente detto che dobbiamo sbrigarci a trovare un altro pianeta da inguaiare, visto che quest'unico che abbiamo l'abbiamo ridotto con le pezze al culo: http://www.repubblica.it/2006/06/sezioni/esteri/megalopoli-sorpasso/profezia-hawking/profezia-hawking.html
Quindi continuiamo con il nostro esercizio di pensiero non funzionale; i normo-pensanti vadano a leggere cose serie.

Non si sa molto del progetto; cercando qua e là ho trovato il comunicato ufficiale della DARPA (l'agenzia del Pentagono che lo finanzia in gran parte) mentre la NASA parla poco:
e qualche articolo in giro:

In un'intervista, l'unica per ora, uno dei responsabili del progetto ha parlato di viaggi inizialmente diretti su Marte già forse dal 2030 per collaudare le tecnologie, poi il grande balzo verso non si sa dove (ma per allora forse si saprà), ammesso che si sia sviluppato un tipo di propulsione completamente nuovo. Si parla di una ipotetico motore a micro-onde; per me potrebbe anche essere a elastico per quel che ci capisco.     
Quello che è certo è che sono stati stanziati inizialmente 1.100.000 dollari per cominciare a pensarci. Esperti di tutte le discipline dello scibile sono ora seduti a chiedersi "come cominciamo?"
Allora io mi sono fatto un po' di domande (perché io ci credo, anzi vorrei che fossero già passati i cento anni) e mi piacerebbe discuterne.

Dove li troveranno i volontari? Non è che svuteranno le galere? E se approfittasero dell'occasione per liberarsi di qualcuno? Uno parte sereno e scopre che nella branda sopra la sua c'è Capezzone, quando il vascello è già partito.
No, sul serio: se più generazioni dovranno succedersi a bordo dell'astronave prima di arrivare alla terra promessa, come fare per evitare di sbarcare sul nuovo pianeta dei disadattati che non riusciranno più a vivere fuori dal guscio dove hanno sempre vissuto?
Poi mi viene un sospetto: tra cent'anni l'ingegneria genetica sarà molto più avanzata e qualcuno potrebbe fare il pensierino di crearlo, l'equipaggio perfetto e geneticamente programmato. Anzi, già che ci siamo, si potrebbe pure pensare di formare un equipaggio solo femminile che si riprodurrà per partenogenesi durante il viaggio. Maschi a marcire nel passato, donne nel futuro.

E quando arriveranno, saranno ancora uomini? Oppure avremo creato i marziani? E se dovessero riuscire a fondare una nuova civiltà, dopo qualche milione di anni perderebbero la memoria della Terra? Potrebbe anche essere già successo e non lo sappiamo più: chissà da dove siamo arrivati.
Urka, che deriva stravago-pensante.  

E finalmente arriviamo non all'ultima ma alla prima domanda: se fosse oggi, io ci andrei?
Non so; ma sento un'attrazione fatale. Io questi viaggi li ho già fatti tante volte col pensiero e li faccio ancora oggi; come potrei farmi scappare l'occasione di farne uno per davvero anche se di sola andata e anche se sapessi che non uscirò mai più da quell'astronave? No, non potrei mai perdonarmi di aver rinunciato.

Bravo questo pioniere da strapazzo, lo dice perché tanto sa che non avrà mai l'onere della prova.
Dite? E voi?

venerdì 5 novembre 2010

"Negro" è una parola offensiva?


Lo confesso, siccome questo fine settimana non avrò tempo, riciclo un articolo che ho già pubblicato altrove. Ma dato che i miei lettori si contano sulle dita delle zampe di un millepiedi zoppo, poco male.

Negro. È oppure no una parola offensiva?
Marco Fabio Quintiliano, maestro di retorica del 1° secolo affermava che “la consuetudine è la miglior maestra della lingua” e non posso dargli torto: la parola negro ha una semantica di fatto che ci viene imposta dalla lingua inglese, cristallizzata dall’uso, che la rende decisamente insultante.
Ma da un punto di vista “tecnico”, mi si passi il brutto aggettivo, non dovrebbe essere così.

Per capire, facciamo un po’ di storia della parola nigger che, come sappiamo, è oggi gravemente oltraggiosa negli Stati Uniti. Ebbene, non è sempre stato così; anzi pochi sanno che sono stati i bianchi i primi a considerarla offensiva.
In America erano chiamati negroes i primi schiavi in arrivo sulle navi negriere, probabilmente dal francese nègre, ma hanno sicuramente un ruolo da comprimari anche lo spagnolo e portoghese negro (nero).
Nigger nasce quasi contemporaneamente e si diffonde per la sua più facile assonanza con l'inglese e, come detto, non ha in origine (e per molto tempo) alcuna sfumatura spregiativa.  
Nel corso del XIX secolo si diffonde sempre di più la percezione di queste parole come discriminanti ma non ancora come insulti, man mano che "gli interessati" le sentivano usate per lo più nell'accezione di schiavo. Ciò non impedisce, per esempio, a Conrad e Dickens di usare nigger nei loro romanzi senza alcun intento razzista.

Il vero spartiacque, la consacrazione di negroes e niggers nell’universo degli oltraggi, è rappresentato dalla pubblicazione, nel 1926 a Oxford, di A Dictionary of Modern English Usage di H. G. Fowler. Nel manuale si legge che quando le parole in questione sono usate in riferimento a "others than full or partial negroes" sono percepite come un insulto dalla persona in oggetto, e tradiscono “at least a very arrogant inhumanity, if not deliberate insolence". Questa frase fu poi eliminata nelle edizioni successive del libro.
Ma l'uso indisturbato, cioè non particolarmente avversato dagli anti-razzisti, continuerà fino al 1960, quando lo sviluppo dei primi movimenti di protesta diffonde l'alternativa black.
Intorno al 1980 si afferma colored people e nel decennio successivo afro-american. Oggi tra i giovani afro-americani è in voga lo slang nigga, un tentativo di orgoglioso recupero delle radici schiavistiche. 
L'alternativa preferibile e più affermata anche in italiano è afro-americano, anche se l'appellativo di colore è ancora molto diffuso. Sicuramente afro-americano ci libera da ogni sospetto ma ci complica la vita: va bene solo per gli americani.

In antropologia la questione si fa più complessa. Una persona afro-americana appartiene al tipo umano negroide, così come noi visi pallidi apparteniamo al tipo umano caucasoide; appare poco comprensibile modificare un termine scientifico solo perché non è ben accetto socialmente.
E i nostri amici spagnoli e portoghesi, dovrebbero forse abolire il colore negro perché è spregiativo? E gli stati africani del Niger e della Nigeria, nonché il fiume Niger, dovrebbero cambiare nome?

E adesso possiamo finalmente parlarne da un punto di vista puramente etimologico. Intuitiva la discendenza dal latino niger (nero, nigrum in accusativo), un po' meno quella ulteriore dal greco nekròs (morto), da cui deriva, ad esempio, l’aggettivo necrotico.

Per concludere, se non siamo disposti ad affrontare una difficile ed imprudente discussione in merito, usiamo afro-americano e di colore.
Peccato; avremmo fatto volentieri a meno dell’ennesima ingerenza della perfida Albione nella lingua di Dante.

domenica 24 ottobre 2010

Centomila ragazzi

Un rave party

Redipuglia, sacrario militare

Siete mai stati al Sacrario di Redipuglia? E' uno dei più grandi sacrari militari del mondo, la tomba di centomila ragazzi sfortunati, sfortunati solo per essere nati nel momento sbagliato.
Centomila ragazzi che hanno fatto la guerra contro l'Austria e non sapevano perché. Sono morti e non hanno mai saputo perché. Il loro massacro non è servito neanche a far capire a chi governa che le guerre non si vincono mai.  Non è servito a niente.
Hanno fatto la guerra più schifosa della storia, la paura, il sudore e il sangue, il freddo in una trincea per mesi.
1.200.000 ragazzi austriaci morti, 650.000 ragazzi italiani morti. Sono stati massacrati guardando in faccia un "nemico" di cui non sapevano niente; sono morti senza capire. Infilzati alla baionetta per conquistare cento metri di nulla.
Andavano all'attacco comandati da un fischietto, uscivano dalla trincea e percorrevano correndo qualche centinaio di metri, correvano verso le mitragliatrici sapendo che la metà di loro non sarebbe tornata indietro. Molti si sparavano addosso per simulare una ferita, per non andare. Se erano scoperti, fucilazione. Vigliacchi? No, disgraziati che avevano la sola scelta di come morire.

Loro non hanno avuto la discoteca, hanno avuto la trincea.
Vecchio bacchettone, cosa vuoi dire? Che faccio male a divertirmi in discoteca? No.
Che faccio male a sballare il sabato sera? No.
Che colpa ho se sono stato più fortunato? Nessuna.
E allora cosa vuoi da me?
 
Io vorrei una sola cosa da te: che tu vada una volta a visitare Redipuglia. Che ti soffermi a guardare quei ventidue gradoni dove leggerai 39.857 nomi, dove leggerai migliaia di volte la parola "presente":


In cima raggiungerai le tombe comuni, di quei sessantamilatrecentotrenta che hanno perso, oltre la vita, anche il nome. Poi ti volgerai indietro e dirai:
"mamma mia che culo".

Solo questo vorrei da te.
 





sabato 16 ottobre 2010

Eutanasia: non so.


La sofferenza esiste, ci accompagna tutta la vita, pronta a toccarci; fa parte di noi, come l'ultimo e il più naturale degli eventi: la morte.
A volte ci tocca, ci ammaliamo, si ammala un nostro caro, ci affidiamo a qualcuno perché abbiamo il diritto di non soffrire, di guarire, di sopravvivere, di vincere la battaglia. Abbiamo il diritto di utilizzare tutti gli incredibili mezzi tecnologici che la medicina usa per sconfiggere il nemico.

Però, forse non parlerei oggi di eutanasia se la scienza avesse investito nella ricerca contro il dolore gli stessi mezzi che ha profuso nella lotta contro la malattia. La scienza medica sa sempre qual è il nemico da sconfiggere, oppure a volte scivola nella pericolosa presunzione di vincere la morte?
Il verbo patior latino, da cui ci arriva la parola "paziente" significa “soffrire”; e non per nulla è un verbo deponente (perdonatemi la digressione grammaticale): soffro e sono sofferto allo stesso tempo. E' condivisone, è compassione.
L’oggetto della medicina è quindi la sofferenza e la malattia, non la morte. La morte, gridiamolo forte, non è una patologia.    
 
A volte la battaglia per la vita la perdiamo, spesso lo capiamo prima degli altri. Poi il dolore fisico ci attanaglia e ci divora dentro, ci sentiamo così disperatamente soli nel dolore da perdere il lume della ragione, non c’è più nessuno che ci arrechi conforto, non c’è più nulla che valga, diventiamo puro dolore. Se questo è percepito come ultimo stadio della degradazione, si può arrivare a chiedere di morire.

C’è invece chi decide di non chiudere il libro prima di aver letto l’ultima pagina, c’è chi beve tutto l’amaro calice. Perché? Cos’è che fa la differenza? Perché non tutti i malati terminali che soffrono terribilmente chiedono di morire? Si potrebbe rispondere che la soglia del dolore è individuale e che non tutti sono eroi. Si potrebbe rispondere che a volte c'è la fede. Ma è solo questo?
No, io credo che qualcuno abbia fatta propria la consapevolezza di non poter disporre della propria vita perché non abbiamo vissuto da soli. La nostra esistenza è entrata a far parte di quelle altrui, di chi ci ha conosciuto veramente. Abbiamo condiviso noi stessi, e da questa condivisione non possiamo escludere la sofferenza.

Io davvero non so.

So però che non mi piacerebbe una legge che definisse dei parametri "oggettivi" in base ai quali si possa o non si possa chiedere di morire. E se il malato sentisse il dovere di giustificarsi davanti ai parenti e ai medici perché non ha deciso di morire? E se si cominciasse a parlare di silenzio-assenso? E se le assicurazioni malattia cominciassero ad esercitare pressioni davanti ad un letto occupato da un disgraziato in coma? E se qualcuno facesse notare che anche quel tale disabile totalizza pochino, solo uno 0.8?
       
E so che quando sarà il momento non saranno i nostri successi a venirci in mente, ma solo quanto abbiamo amato. So che il bilancio dell'amore non è mai in perdita. Sarà il momento di dare il massimo, sia che io mi trovi accanto ad un letto, sia che io sia dentro quel letto.

Come, ripeto, non so.

P.S:
le scarpe di Van Gogh mi sono sembrate una bella metafora di ciò che resta del percorso di un uomo. Non sappiamo se egli sia nel suo letto di morte o se sia già andato; sappiamo solo che non le indosserà più.

sabato 25 settembre 2010

Falcone e Borsellino chi?



Qualche tempo fa parlavo con un giovane studente universitario, italiano, laureando in economia all’Università della Svizzera Italiana, del più e del meno.
Cercavo di parlare del più e non del meno, come sempre (e sempre di più) preoccupato per il livello culturale della classe dirigente del futuro. Come spesso accade, gli stavo rompendo le scatole con i princìpi che vengono prima dei fatti, del “know what” che viene prima del know how, invitandolo a riflettere sulle virtù dell’ignoranza consapevole. Del come le idee nascono dalla continua ricerca del dubbio.
Il giovane è stato volentieri al gioco, capace di ribattere difendendo vivacemente il suo status intellettuale e i suoi modi di vita, finché, non ricordo a quale proposito, ho nominato Falcone e Borsellino. Un attimo drammatico (per me), uno sguardo perso (il suo): non sapeva chi fossero, mai sentiti.

Mi pare che una classe dirigente di questo livello culturale, ma soprattutto di questo livello di inconsapevolezza, non possa che essere costituita solo da yes men. Da dove prenderà il mondo del futuro le nuove idee? 
Mi faccio, vi faccio, una domanda non retorica: sto sbagliando io nel preoccuparmi?

P.S: vado in vacanza (senza internet ma con carta e penna!), ci risentiamo dopo il 6 ottobre.

domenica 19 settembre 2010

Assicurazioni malattia: l’ignobile pianto autunnale


Arriva l'uovo di Pasqua autunnale che ogni anno aspettiamo con ansia: di quanto aumenteranno le nostre assicurazioni malattia per l'anno prossimo? Stiamo pur certi che quando avremo rotto l'uovo non rimarremo delusi: è proprio come pensavamo. Sono aumentate. Che strano, ma davvero?

Che cos'è la salute di un popolo? E' un bene individuale ma è anche un bene pubblico, perché se il popolo è in salute la nazione produce di più con maggiore efficienza e minori costi.
Anche il patrimonio forestale di uno Stato è un bene pubblico, perché produce ossigeno, ripara dalle frane ed è bello da fruire. Ma nessuno ha ancora convinto gli alberi a sottoscrivere una polizza assicurativa. Gli alberi non possono essere menati per il naso perché non hanno il naso. Che peccato. E sì che ce ne sarebbero di bravi, solerti e disinteressati imprenditori pronti a fornire magnifici prodotti assicurativi agli abeti.

Quando gli svizzeri sono stati chiamati a decidere se optare per un'assicurazione malattia unica e statale, la maggioranza non ha compreso che stava votando per dei princìpi, non per un modello economico. Se il sistema unico statale fosse riuscito o no ad abbattere i costi della salute (io penso di sì) era secondario rispetto ai princìpi.
Ma di quali princìpi sto blaterando? Eccoli:

1) la tutela di un bene pubblico non può essere affidata ad un'entità privata che abbia scopo di lucro. La logica del profitto fa a pugni con il concetto di "pubblico". Riuscite ad immaginare un azionista di un'assicurazione malattia disperarsi per l'aumento dei costi delle cure? Io no.
L'obiettivo di bilancio di un'entità statale è il pareggio: né dividendi né perdite. L'obiettivo di una SA è incompatibile con questo principio. Potremmo obiettare: sì ma se lo stato non fa utili come fa a investire sulle nuove cure? Attenzione, non confondiamo i dividendi da distribuire agli azionisti con gli investimenti, sono due cose molto diverse.   

2) Il tanto sbandierato principio della solidarietà non è quello che si sforzano di propinarci le assicurazioni: tutti pagano per tutti. Il principio della solidarietà è che tutti pagano per tutti secondo la loro capacità. E' lo stesso principio che governa il pagamento delle imposte e proprio non si vede perché non debba essere applicato per questo tipo di bene pubblico. Ancora una volta, il patrimonio forestale è curato dagli interventi pubblici, quindi ognuno cura gli alberi di tutti secondo la sua capacità, quindi in base al suo reddito.

3) L'assicurazione malattia è, giustamente, obbligatoria. Ma non vedo perché io debba essere obbligato ad un contratto con un privato. Fatemi scegliere un assicuratore che per sua natura non possa fare accordi (cartelli) con i suoi concorrenti. In questo senso tutte le assicurazioni obbligatorie (anche quella dell'auto, sebbene il bene sia individuale e non pubblico) dovrebbero almeno avere un'alternativa statale.  

4) Spero che tutti sappiano che la scelta tra assicurazione privata/semiprivata o di base non è semplicemente la scelta della sistemazione alberghiera: si tratta purtroppo di una classificazione tra pazienti di seie A e pazienti di serie B. Leggete la risposta dell'Ente Ospedaliero Cantonale a questa interrogazione e la umoristica conclusione del Consiglio di Stato:
A dir poco ignobile per un paese civile; una regola di cui l'assicuratore privato non parla al momento della sottoscrizione e che va semplicemente cancellata. Questo non sarà mai possibile senza l'intervento dello Stato.  
 
5) L'applicazione dei principi suddetti non è incompatibile con il liberismo economico: i privati sono liberi di proporre tutte le assicurazioni complementari che vogliono.

Bene, adesso che l'ho detta tutta, accoglierei volentieri commenti che mi dimostrino che ho torto. Ma che dimostrino, non che si limitino ad affermarlo.

giovedì 16 settembre 2010

Quanto è ancora difficile essere donna?


Nel 1879 Gustave Le Bon (poi vi dico chi è) scrive:

Tra le razze più intelligenti esiste un gran numero di donne i cui cervelli sono più vicini nelle dimensioni a quelli dei gorilla che non a quelli dei maschi più sviluppati. Questa inferiorità è talmente ovvia che nessuno potrebbe contestarla per un momento; quello su cui si può discutere è il grado d’inferiorità. Tutti gli psicologi che hanno studiato l’intelligenza delle donne riconoscono oggi che esse sono la forma più bassa dell’evoluzione umana e che sono più simili ai bambini e ai selvaggi che non all’uomo civilizzato. Sono assolutamente incostanti, mancano di pensiero e di logica e sono incapaci di ragionare. Senza dubbio esistono donne di notevole talento, ma esse sono eccezioni come la nascita di una qualsiasi mostruosità, per esempio un gorilla con due teste, e possiamo quindi evitare di prenderle in considerazione.
(G. Le Bon, Recherches anatomiques et mathématiques sur les lois des variations du volume du cerveau et sur leur relations avec l'intelligence, 1879)

Ora, il punto è che Gustave Le Bon non era un cretino. Era uno psicologo e sociologo di chiara fama, uno scienziato che tutt’oggi è ricordato come il fondatore della psicologia sociale, e il suo famoso saggio Psychologie des foules è tutt’oggi citato nelle pubblicazioni scientifiche. Come è stato possibile che un uomo di scienza, colto e con una reputazione da difendere abbia raggiunto una simile bassezza?
Nell’800, sull’onda illuminista del secolo precedente, la scienza ha fatto enormi progressi e un mare di errori. Tutto era misurabile, e con le misure si pretendeva di valutare qualunque risultato complesso, compresa l’intelligenza umana. Così si diffusero le tecniche e gli approcci bio-deterministici come la craniometria, la pesatura dei cervelli e, sul finire del secolo, l’uso distorto del Quoziente Intellettivo. Inutile dire che questi approcci, completamente sballati dal punto di vista scientifico, furono di grande utilità per “dimostrare” l’inferiorità dei tipi umani non socialmente approvati dalla cultura del tempo (non che sia cambiato molto): negri, delinquenti, zingari, omosessuali e, già che c’erano, per dimostrare l’indiscutibile supremazia del maschio umano sull’altro sesso.
L’errore serpeggiò talmente negli ambienti accademici che persino la celebre pedagogista Maria Montessori vi cadde all’inizio del ‘900 quando, dopo aver misurato le teste dei suoi allievi, scrisse una pari stupidaggine, ma di segno opposto:   

Le donne sono intellettualmente superiori agli uomini, ma questi ultimi hanno finora prevalso grazie alla forza fisica. Dato che la tecnologia ha abolito la forza come strumento di potere, l’era delle donne può essere prossima.
(M. Montessori, Antropologia pedagogica, 1911)

Ora mi domando e vi domando: quanto di questa pseudo-scienza condiziona tutt’oggi il nostro modo di pensare? Anzi, quante delle tesi preconcette ottocentesche che sono state riverite da alcuni scienziati in modo ignobile, strisciano ancora tra noi? Quanto dobbiamo vigilare perché prima o poi una convincente ma non dimostrabile teoria si metta al servizio del potente di turno o della paura del momento?

Il mio pensiero va alla celebre matematica Sophie Germain (immagine in alto), che sul finire del ‘700 dovette fingersi maschio per poter inviare i suoi lavori, di altissimo livello, alla École Polytechnique di Parigi. Alla fine la sua capacità fu riconosciuta negli ambenti accademici, ma l’ostracismo nei suoi confronti durò fino a dopo la sua morte. Sophie si dedicò negli ultimi anni allo studio dell’elasticità dei materiali e questi studi risultarono fondamentali per la costruzione delle grandi opere in ferro tra cui la Tour Eiffel. In cima alla torre sono immortalati i nomi di settantadue scienziati ma quello di Sophie, cercatelo, non c’è.
 
E qui vengo all’ultima e cruciale domanda: quanto è ancora difficile essere donna?
Spero tanto che qualche amica voglia dire la sua.

martedì 7 settembre 2010

Creazionismo: un delitto


Non c'è nulla di scientifico nel cercare indizi che si pieghino a dimostrare una tesi "vera" in partenza, quella della creazione. La ricerca scientifica procede per ipotesi che possono risultare verificate o non verificate, non è al servizio di presunte verità accettate in senso fideistico.
I creazionisti stanno tentando di usare la scienza non per dimostrare la veridicità della creazione, ma per dimostrare la falsità della teoria dell'evoluzione in quanto "nemica" della "verità" creazionista. Purtroppo con qualche successo, dovuto alla facile presa che hanno le teorie sballate su una diffusione della conoscenza scesa al di sotto del livello di guardia. 

Invece la domanda delle domande è ancora, per fortuna, senza risposta. Più conosciamo, più questo senso di abisso dell'ignoto si accresce. Di fronte a questo smarrimento occorre la grande virtù dell'umiltà, quella che ci fa scegliere la strada del "non lo so" piuttosto che trovare immediate e facili soluzioni teiste.
Supponiamo, per assurdo, che la teoria figlia di Darwin sia un giorno scientificamente e clamorosamente smentita. Questo non vuol dire che saremo costretti ad accettare la tesi creazionista ma solo che sarà necessario intraprendere un’altra strada. Questa è la Scienza con la S maiuscola, quella che non si arrende.
Invece la creazione è una ricetta preconfezionata che umilia le capacità speculative dell'uomo, fornendo delle certezze in cui si può solo avere fede. Ragionarci su è del tutto inutile. Questo è il modo per uccidere la ragione, la curiosità, la ricerca, la fantasia. Un delitto.

E quando penso alle responsabilità degli educatori, non mi riesce d'immaginare un modo peggiore per stimolare la crescita del pensiero. Non è infatti la certezza ma il dubbio l'humus dove si avvera lo sviluppo del pensiero umano, inteso nella più ampia accezione: filosofia, scienza, arte e, non ultima, la religione. Quando un educatore risponde "non lo so" all’ultimo perché, apre un’infinità di vie, non chiude la pietra tombale della certezza. E potrà percorrere quelle vie con quegli allievi che hanno bisogno di sapere, non di una morte precoce del pensiero.    

sabato 4 settembre 2010

Quale civiltà possiamo opporre?


Sta scatenando un putiferio la pubblicazione del libro "La Germania si distrugge da sola" di Thilo Sarrazin, membro del direttorio della Bundesbank (probabile l'espulsione) che paventa la "islamizzazione" della Germania e accusa la politica d'immigrazione tedesca di essere cieca e sorda di fronte alla minaccia. Non l'ho letto, se non alcuni spezzoni pubblicati qua e là nei quali sento odore di Mein Kampf :
"Ci preoccupiamo del clima del mondo tra 100 o 500 anni. Perché dovremmo essere interessati al clima tra 500 anni, quando il  programma tedesco per l’immigrazione sta lavorando per l’estinzione dei tedeschi?".

Sento in giro, e capisco, un diffuso senso di preoccupazione per l'immigrazione islamica. Credo che la preoccupazione sia giustificata, perché una società così permeata dalla religione, nella quale è difficile distinguere tra diritto e dottrina, farebbe fare un balzo indietro all'Europa di cinquecento anni. Ma credo anche che se il nostro modello di società dovesse soccombere, sarebbe solo colpa nostra.
Quale civiltà possiamo opporre? Su quale etica possiamo contare per contrastare con princìpi ferrei chi ci volesse imporre quella dei libri sacri? Quella dell'iPod?
Ogni etica basata sul divino è più forte di nessuna etica. E noi non abbiamo più idee, perché le abbiamo sostituite con gl'interessi. Chi ha annullato la modalità dell'essere in favore di quella dell'avere soccomberà.

Tornare all'essere, ecco la nostra difesa. Conoscere, istruire, sviluppare investendo nel sapere. Mandare a casa i governanti che non hanno altro riferimento che il denaro, cacciare via i mercanti dal tempio. Rivedere i nostri modelli di vita, insegnare ad accontentarsi, essere fieri di non avere, fieri di pensare e fieri di non guardare la televisione. Fieri di aver capito che non è con il possesso delle cose che soddisfiamo la nostra brama di piacere. Rifondare la nostra etica, ecco la priorità per non soccombere.
Ho tanta speranza in un futuro così, e tanta paura che non sarà così.

Per non dare adito a dubbi, non è l'Islam in particolare che mi preoccupa. Non dimentichiamo che la Biblioteca di Alessandria è stata rasa al suolo tre volte, la prima dai Romani, la seconda dai Cristiani, la terza dai Musulmani.
E' tempo di capire che ricostruirla è un'emergenza assoluta. E poi, dovremo difenderla con i denti contro chiunque la voglia piena solo di libri sacri.