sabato 29 ottobre 2011

Chi si ricorda di Albert Sabin?


Mi sono sentito sommerso dall’insopportabile e troppo facile cordoglio multimediale per Steve Jobs e Marco Simoncelli. Uno non può più morire in santa pace, subito lo twittano e lo sommergono di pollici in su, tanto costano solo un click.
Il pensiero mi è andato subito a un gigante morto nel 1993 in punta di piedi: Albert Sabin.
Ve lo ricordate? Vi dice nulla questa foto?

Spero di sì, ma in caso contrario vi aiuto: tornate con la mente a quella zolletta di zucchero con la gocciolina rosa che vi hanno dato da bambini: il vaccino antipolio.
Sabin ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e alla diffusione del vaccino, salvando dalla cosiddetta “paralisi infantile” centinaia di milioni di bambini.
Osteggiato prima in Europa dal nazismo (era un ebreo polacco) e poi in America, dove era fuggito, perché si contrapponeva al più patriottico e meno efficace vaccino Salk, coronò la sua opera con un regalo che nessun uomo deve mai dimenticare:    

“Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo.”

Sabin aveva perso due nipotine, Amy e Deborah, uccise dalle SS a Bialystok, in Polonia. Aveva dato gli stessi nomi alle sue due figlie, che saranno poi tra le prime “cavie” umane del suo vaccino.
Non era un santo, era un giusto. L’idea di brevettare il vaccino, che gli avrebbe assicurato un’immensa ricchezza, lo aveva sfiorato. Quando si rese conto che il processo di brevetto sarebbe durato a lungo, ritardando così la disponibilità a tutti del vaccino, rinunciò. Visse per tutto il resto della sua vita con lo stipendio di docente universitario.

Sabin non era un campione di motociclismo, era solo un campione. Senza nulla togliere ai campioni di moto.
Anche Steve Jobs era un campione, anche Steve Jobs aveva detto “non m’interessa diventare il più ricco del cimitero”.
Ma ci sono quelli che dicono e ci sono quelli che fanno.
   
Chiudo con un pensiero ispiratore di Albert Sabin:

“La giovinezza non è un periodo della vita, e uno stato d'animo che consiste in una certa forma della volontà. In una disposizione dell'immaginazione, in una forza emotiva, nel prevalere dell'audacia sulla timidezza, della sete dell'avventura sull'amore per le comodità. Non si invecchia per il semplice fatto di aver vissuto un certo numero di anni, ma solo quando si abbandonano i propri ideali. Se gli anni tracciano i loro solchi sul corpo, le rinunce all'entusiasmo li tracciano sull'anima. Essere giovane significa conservare a sessanta, a settant'anni, l'amore del meraviglioso, lo stupore per le cose sfavillanti e i pensieri luminosi, le sfide intrepide lanciate agli avvenimenti, il desiderio insaziabile del fanciullo per tutto ciò che è nuovo, il senso del lato piacevole e lieto dell'esistenza. Resterete giovani finché il vostro cuore saprà ricevere i messaggi di bellezza, di audacia, di coraggio, di grandezza, di forza che vi giungono dalla terra, da un uomo o dall'infinito. Quando tutte le fibre del vostro cuore saranno spezzate e su di esso si saranno accumulate le nevi del pessimismo e il ghiaccio del cinismo è solo allora che diverrete vecchi.”      

Ecco uno che resterà giovane anche dopo la sua morte.

sabato 15 ottobre 2011

Il bene e il male dell’eredità di Steve Jobs

1983 - Il ventottenne Steve Jobs presenta Lisa

Non voglio assolutamente sminuire il valore di Jobs, anzi. Sono un soddisfatto utilizzatore dell’iPad, e credo di non aver mai avuto la così netta sensazione di aver fatto un balzo nel futuro come con questa tavoletta. Però…

Ricordo benissimo quando, nel 1983, Apple presentò Lisa, il primo computer commerciale con le icone e il mouse. All’epoca un collega che aveva assistito alla presentazione mi disse: “ho visto una cosa pazzesca, è l’anti-informatica, funziona!”. Allora nessuno di noi immaginava ancora di interagire con un computer in maniera diversa da comandi testuali e codici.
C’era invece chi lo stava immaginando sin dal 1978, ed era Steve Jobs. Lisa fu un flop commerciale: costava un’enormità (9.995 dollari) e faceva ben poco; ma fu l’apri-pista per quello che arrivò dopo e che tutt’oggi è ancora lo standard dell'interazione grafica tra uomo e macchina.
Non era stata Apple a inventare il mouse e le icone, ma la Xerox. Ma solo Jobs, la prima volta che vide il mouse, lo immaginò su tutte le scrivanie del mondo e ne acquistò il brevetto per un piatto di lenticchie. Visioni che fanno la differenza.

Apple ha fatto delle gran belle cose, con profitti astronomici. Ma la mela è un mondo chiuso dove tutto dev’essere Apple, anche tutti i dispositivi periferici. Una prigione bellissima. 
Almeno Microsoft (lungi da me difenderla!) sviluppa sistemi che girano dappertutto.
Ho un rimpianto: se solo Jobs avesse dedicato un po’ del suo talento alla collettività e non solo all’impresa...  
Quindi, sepolto Jobs ecco una domanda: esistono altri visionari? E soprattutto, esistono dei veri talenti che mettono le loro idee al servizio della gente e non solo di un marchio? La risposta è sì, e ora voglio parlarvi di un paio di loro.

Cominciamo da queste sorprendenti parole pronunciate il 6 ottobre:

"Steve Jobs, pioniere del computer inteso come bella prigione, colui che ha progettato di separare gli stupidi dalla loro libertà, è morto. Come il sindaco di Chicago Harold Washington disse del corrotto precedente sindaco Daley: "Non sono felice che sia morto, ma sono felice che se ne sia andato". Nessuno merita di dover morire - né Jobs, né il Sig. Bill, né persone colpevoli di mali peggiori. Ma tutti ci meritiamo la fine dell’influenza maligna di Jobs sul computing. Purtroppo, quell’influenza continua nonostante la sua assenza. Possiamo solo sperare che i suoi successori, nel proseguirne l’eredità, siano meno efficaci."

Richard Stallman


Stallman, classe 1953, ha una laurea in fisica ad Harward e una lista impressionate di dottorati, di cui alcuni honoris causa. E’ un programmatore assolutamente geniale che ha rinunciato a diventare ricco, avendone tutte le possibilità.
Stallman ha un’idea fissa: il software deve essere libero. Nessun copyright, ma solo “copyleft”, un bel gioco di parole che colloca anche politicamente l’idea. Devo dire che mi piace. 
Il simbolo del “copyleft”

Nel 1985 fonda la “Free Software Foundation”, che definisce le regole del software libero, i tipi di licenza e le condizioni d’uso. La filosofia è quella dell’ “open source”: tutti possono avere a disposizione il codice del software che usano e modificarselo a piacimento, migliorarlo e distribuirlo. Ultimamente però Stallman ha affermato che sarebbe meglio parlare di “free software”, più fedele all’idea originaria di libertà di quanto non sia “open source”, che finisce per concentrare l’attenzione sulle caratteristiche e non sull’idea filosofica.
Stallman è oggi un attivista che non ha mai rinunciato alla sua battaglia per il software libero, perché è l’unica garanzia per restare liberi usando un computer. Sostiene che se non abbiamo il controllo di quello che fa il computer, se non abbiamo la possibilità di modificare tutte le sue funzioni, è il computer a usare noi e non il contrario.

Su quest’idea è basato lo sviluppo di importantissimi prodotti: il sistema operativo GNU/Linux, da cui deriva il mio preferito Ubuntu, il browser Mozilla Firefox, la suite LibreOffice (già nota come Open Office), per parlare dei più noti. Di tutti questi, per sempre assolutamente gratuiti, potete avere il codice sorgente e farne tutto ciò che volete, eccetto rivenderlo.

 La più recente versione di Ubuntu: “Oneiric Ocelot”
(clicca per ingrandire)
 
Certo, sapere di usare un software di cui nessun gruppo di potere può prendere il controllo direttamente o indirettamente, dovrebbe essere un nostro pensiero costante. Invece il mercato ci spinge a pensare solo alla bellezza e alla comodità.

Ubuntu, il sistema operativo che uso ormai da diversi anni, è figlio dell'idea di un altro visionario: Mark Shuttleworth:

 
Imprenditore sudafricano ricchissimo (nel 2002 è stato passeggero pagante di una missione spaziale per 20 milioni di dollari), ha messo a disposizione imponenti cifre per il progetto Ubuntu e la sua diffusione gratuita, sempre con le regole "open source". Ubuntu è e resterà per sempre gratuito, i diritti non possono essere acquistati da nessuno. 

"Ubuntu" è una parola in lingua Bantu che vuol dire “disponibilità verso gli altri”. Ecco cosa dice di questo sistema operativo Nelson Mandela: 

"Una persona che viaggia attraverso il nostro paese e si ferma in un villaggio non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?"

Maggiori informazioni su Ubuntu qui.
Non è il momento per una discussione sulle caratteristiche di Ubuntu, magari una volta ne parliamo, ma prima va compresa e apprezzata la sua filosofia.

Certo, uno che usa Ubuntu e l’iPad, parlo del sottoscritto, mi pare che non abbia deciso da che parte stare.   

sabato 8 ottobre 2011

Ma come parlava Cicerone? Fatterelli sul latino.


Vi racconto tre chicche sul latino, nella convinzione che serviranno a vedere una lingua cosiddetta “morta” (ma quando mai, il passato è sempre presente) da un altro punto di vista. Purtroppo nessuno di questi fatterelli ce l’hanno insegnato a scuola, a meno di aver avuto un insegnante particolarmente illuminato e appassionato.   


Matrimonio e patrimonio

Notate la perfetta simmetria tra queste due parole, eppure non sembrano aver molto a che fare l’una con l’altra.
Il suffisso -monio (latino -monium) vuol dire “che viene da”, quindi il patrimonio viene dal padre (i suoi beni destinati ai figli) e il matrimonio viene dalla madre. Perché solo da lei? Che cos’è il matrimonio?
Dobbiamo ragionare un po’ in latino: il matrimonium si differenziava dal concubinatus e anzi vi si opponeva, essendo il primo finalizzato alla creazione della famiglia e quindi alla generazione della prole e il secondo solo alla convivenza tra uomo e donna.
Generare una prole, creare una discendenza, richiede una certezza sull’identità degli eredi; questa certezza può derivare solo dalla madre e non dal padre (mater semper certa est, pater numquam).
Ecco che si crea un legame: il patrimonio del padre è ereditato dal figlio avuto in matrimonio con quella che è sicuramente sua madre. Ciò che certifica la paternità (benché biologicamente solo presunta) è la maternità, che invece è sempre reale e mai presunta.
E poi hanno inventato il test del DNA…     


La poesia dei verbi deponenti

A scuola mi hanno spiegato che in latino ci sono dei verbi che pur avendo forma passiva hanno significato attivo: si chiamano deponenti. Per esempio il verbo sequor significherebbe letteralmente “essere seguito” e invece vuol dire “seguire”. E così molti altri verbi.
Il guaio è che non mi hanno spiegato perché. Quando l’ho capito, molti anni dopo, sono rimasto affascinato dalla raffinatezza, oserei dire dalla poesia della semantica deponente.
Infatti, la forma deponente è tipica di quei verbi in cui non si può fare tutto da soli: ad esempio il verbo negotior (negoziare) è deponente perché non posso negoziare con me stesso, mi serve una controparte; quindi quando “io negozio” sono contemporaneamente parte attiva e passiva.
Lo stesso quando rendo una confessione, infatti confiteor è un verbo anch’esso deponente. Altri esempi sono i verbi hortor, ”esortare” e largior, ”donare”: chi non ha provato piacere nel donare? Faccio un dono e mi viene donato.
L’apice della poesia è raggiunto con il verbo patior, ”soffrire”: è vero che posso soffrire anche da solo, ma la mia sofferenza genera compassione nel prossimo, quindi “io soffro” e “sono sofferto” allo stesso tempo.
Peccato aver perso i verbi deponenti in italiano, abbiamo perso in raffinatezza.
Il più bello? Morior (morire). Nessun uomo che muore è solo perché tutti muoiono un po’ con lui: Non chiedere per chi suona la campana. Essa suona per te.”

                                  
La “pronuntia restituta

Se vi dovesse capitare di ascoltare un tedesco che pronuncia “Kaesar” invece di “Caesar”, prima di sorridere fermatevi finché siete in tempo: ha ragione lui.
In Italia è insegnata la pronuncia del latino ecclesiastico, che non è quella di Cicerone. In tutto il resto d’Europa è insegnata la pronuncia “classica” detta anche “ricostruita” o “pronuntia restituta”, quella autentica del Senato di Roma.

I primi predicatori cristiani parlavano al popolo, ai poveri e ai diseredati, insomma al proletariato. La promessa della vita eterna a chi non ha avuto nulla nella vita terrena obbligava a usare il latino parlato dal popolo, che era più molle, una sorta di dialetto a cui la primissima Chiesa dovette adeguarsi. E tale è rimasto per la Chiesa nei secoli dei secoli, influenzando totalmente l’insegnamento del latino in Italia.

Fondamentalmente, invece, il latino classico aveva una pronuncia dura: C e G non hanno mai pronuncia dolce, la T non si pronuncia mai Z come siamo abituati a dire in gratia, i dittonghi AE e OE devono essere pronunciati con suoni separati e non uniti, la V ha sempre il suono della U.

In Nord Europa si fanno studi di latino molto seri. C’è addirittura una venerazione per il latino in Finlandia, ne siano testimoni le trasmissioni radiofoniche regolari in lingua (Nuntii latini), che potete ascoltare qui, naturalmente con pronuntia restituta. Mi raccomando, come pronunciate la "t" di pronuntia?

Il logo di Nuntii latini

domenica 2 ottobre 2011

Il tempo ha tutto il tempo che vuole

Humphrey Bogart

Versione pessimista-nichilista del sottoscritto. Se avete di meglio da fare, fatelo. 

La memoria non è eterna. Prendiamo Giulio Cesare. E’ morto da duemila anni e tutti sanno chi fosse, vecchi e giovani; si potrebbe dire che è uno di quei miti che non sarà mai dimenticato.

E invece non è vero. 

Arriverà il momento dell’oblio anche per Giulio Cesare, come pure per Beethoven, Shakespeare, Ramsete II, e Humphrey Bogart. E’ solo questione di tempo, e il tempo ha tutto il tempo che vuole. Non ci sarà più nessuna differenza tra Leonardo da Vinci e Bruno Gasparetti, impiegato postale di Gallarate. Il Codice Atlantico o il registro dei pagamenti? La stessa cosa.
Forse in altri tempi mi avrebbero acceso un bel falò.

Eppure, pensiamo a quanta storia umana ante-litteram c’è stata prima ancora che iniziasse la Storia, prima che un cavernicolo avesse l’idea di fare un graffito! Chissà quante Piramidi si sono già sgretolate e non lo sappiamo!

Poi, alla fine dell’uomo, non ci sarà neanche più nessuno che possa ricordare. La fine della Storia. Il tutto, dall’Homo Abilis alla fine, si sarà svolto in un tempo così piccolo da essere insignificante.
Che sarà di quello che oggi ci sembra un gigantesco bagaglio di creazioni e pensieri? Come faccio, io che ho consapevolezza di esistere, ad accettare di aver vissuto per nulla? Come faccio, con queste domande che incombono, a preoccuparmi della bolletta del telefono?

Vado a mangiare un gelato. Alla fine, tanto, la mia pallina di stracciatella sarà importante come la Pietà di Michelangelo o Guernica, porca vacca.