Vorrei commentare queste poche parole di Cicerone, che scrive nel De Republica:
Siamo tratti per natura ad accrescere la felicità del genere umano e, inclini a tale piacere per istinto naturale, ci sforziamo con i nostri pensieri e le nostre fatiche di rendere più sicura e confortevole la vita altrui…
Sei sicuro, Marco Tullio? Mi stupisco di queste tue parole, eppure devono essere vere perché tu ne sai una più del diavolo.
Ma dimmi, tu sei lo stesso Cicerone che ricorda con plauso la vittoria di Scipione Emiliano su Cartagine? Sei lo stesso che celebra la gloria di quegli eserciti che operarono la più grande e sistematica distruzione di una città della storia antica? Hai dimenticato le decine di migliaia di civili ridotti alla fame dall’assedio, privati di ogni bene, della libertà e perfino di ogni singolo mattone delle loro case? Hai dimenticato i cinquantamila schiavi tradotti a forza a Roma? E i campi cosparsi di sale perché non vi crescesse più nulla?
Già, noi oggi come ci spieghiamo questa doppia identità di Cicerone? Dottor Jekyll quando scrive un trattato di politica e Mister Hyde quando ricorda Cartagine?
L'interpretazione di questo dualismo sta nel pensare come un romano dell’epoca, perché la gente e il mondo non erano come li vediamo oggi.
Dobbiamo pensare a un mondo, quello dei sudditi dell’Impero, i cives di Roma, in cui è compreso tutto l’universo umano degno di considerazione.
Gli altri, i nemici (perché o eri con Roma o contro di Roma) non erano “altri”, erano “alieni”, marziani da temere. In un certo qual modo non erano umani perché non erano romani, una presenza da prendere in considerazione solo come minaccia; e siccome bisognava pensare alla felicità degli uomini, le minacce andavano soppresse.
Non è quindi “il genere umano” inteso antropologicamente quello di Cicerone, né “la vita altrui” quella di ogni uomo sulla Terra.
Il mondo era fatto dalla “nostra gente” circondata (e minacciata) da razze inferiori che dovevano essere soggiogate per garantire lunga vita allo Stato, l’entità alla quale tutti dovevano ubbidienza, pena il disfacimento delle sacre istituzioni che garantivano il benessere materiale e morale ai cives.
Il mondo era fatto dalla “nostra gente” circondata (e minacciata) da razze inferiori che dovevano essere soggiogate per garantire lunga vita allo Stato, l’entità alla quale tutti dovevano ubbidienza, pena il disfacimento delle sacre istituzioni che garantivano il benessere materiale e morale ai cives.
Perciò, continua Cicerone nel seguito del De Republica, quale migliore applicazione della naturale, umana inclinazione al bene si può trovare se non dedicare la vita a servire lo Stato? E servirlo significa anche schiacciare i topi che lo minacciano.
Non possiamo indignarci per questo. Quando trascorri tutta la tua vita nel raggio del chilometro in cui sei nato, non hai visto mai nulla che ti sia men che familiare, una visione di questo tipo è culturalmente comprensibile.
Possiamo solo dire: "quanta strada abbiamo fatto da allora!". Ci siamo evoluti, duemila anni dopo abbiamo capito. Non c’è topo e non c’è gatto, mangiamo tutti allo stesso piatto (m’è venuta pure la rima). Il piatto sono le non infinite risorse che dovremmo equamente e prudentemente consumare e rinnovare.
Poi ci sono gli avidi, quelli che hanno capito ma il piatto lo vogliono tutto per loro: le classi dominanti e i loro governanti servi.
Dulcis in fundo, purtroppo la natura non è mai avara d'imbecilli, spesso ben accompagnati dagli ignoranti. Sono quelli che ancora pensano di vivere nel chilometro di cui sopra. Sono quelli che sono rimasti a duemila anni fa: “la nostra gente” e fuori gli altri.
Non glielo dite, poveretti, che sono dei romani purosangue!
Non glielo dite, poveretti, che sono dei romani purosangue!