sabato 25 febbraio 2012

Non c’è topo e non c’è gatto


Vorrei commentare queste poche parole di Cicerone, che scrive nel De Republica:

Siamo tratti per natura ad accrescere la felicità del genere umano e, inclini a tale piacere per istinto naturale, ci sforziamo con i nostri pensieri e le nostre fatiche di rendere più sicura e confortevole la vita altrui…

Sei sicuro, Marco Tullio? Mi stupisco di queste tue parole, eppure devono essere vere perché tu ne sai una più del diavolo.  
Ma dimmi, tu sei lo stesso Cicerone che ricorda con plauso la vittoria di Scipione Emiliano su Cartagine? Sei lo stesso che celebra la gloria di quegli eserciti che operarono la più grande e sistematica distruzione di una città della storia antica? Hai dimenticato le decine di migliaia di civili ridotti alla fame dall’assedio, privati di ogni bene, della libertà e perfino di ogni singolo mattone delle loro case? Hai dimenticato i cinquantamila schiavi tradotti a forza a Roma? E i campi cosparsi di sale perché non vi crescesse più nulla?

Già, noi oggi come ci spieghiamo questa doppia identità di Cicerone? Dottor Jekyll quando scrive un trattato di politica e Mister Hyde quando ricorda Cartagine?
L'interpretazione di questo dualismo sta nel pensare come un romano dell’epoca, perché la gente e il mondo non erano come li vediamo oggi.
Dobbiamo pensare a un mondo, quello dei sudditi dell’Impero, i cives di Roma, in cui è compreso tutto l’universo umano degno di considerazione.
Gli altri, i nemici (perché o eri con Roma o contro di Roma) non erano “altri”, erano “alieni”, marziani da temere. In un certo qual modo non erano umani perché non erano romani, una presenza da prendere in considerazione solo come minaccia; e siccome bisognava pensare alla felicità degli uomini, le minacce andavano soppresse.   

Non è quindi “il genere umano” inteso antropologicamente quello di Cicerone, né “la vita altrui” quella di ogni uomo sulla Terra.
Il mondo era fatto dalla “nostra gente” circondata (e minacciata) da razze inferiori che dovevano essere soggiogate per garantire lunga vita allo Stato, l’entità alla quale tutti dovevano ubbidienza, pena il disfacimento delle sacre istituzioni che garantivano il benessere materiale e morale ai cives.   
Perciò, continua Cicerone nel seguito del De Republica, quale migliore applicazione della naturale, umana inclinazione al bene si può trovare se non dedicare la vita a servire lo Stato? E servirlo significa anche schiacciare i topi che lo minacciano.
Non possiamo indignarci per questo. Quando trascorri tutta la tua vita nel raggio del chilometro in cui sei nato, non hai visto mai nulla che ti sia men che familiare, una visione di questo tipo è culturalmente comprensibile. 

Possiamo solo dire: "quanta strada abbiamo fatto da allora!". Ci siamo evoluti, duemila anni dopo abbiamo capito. Non c’è topo e non c’è gatto, mangiamo tutti allo stesso piatto (m’è venuta pure la rima). Il piatto sono le non infinite risorse che dovremmo equamente e prudentemente consumare e rinnovare.
Poi ci sono gli avidi, quelli che hanno capito ma il piatto lo vogliono tutto per loro: le classi dominanti e i loro governanti servi.
Dulcis in fundo, purtroppo la natura non è mai avara d'imbecilli, spesso ben accompagnati dagli ignoranti. Sono quelli che ancora pensano di vivere nel chilometro di cui sopra. Sono quelli che sono rimasti a duemila anni fa: “la nostra gente” e fuori gli altri.
Non glielo dite, poveretti, che sono dei romani purosangue!




1 commento:

  1. In realtà i romani, sin dal loro affacciarsi sulla scena “nazionale”, fecero molte distinzioni tra cittadini e cittadini. Non bastava essere romanus per essere civis perché magari eri romano ma non di Roma, non appartenente alla classe politica romana, bensì di una colonia romana optime jure cioè dipendente esclusivamente da Roma, oppure eri un romano di minor pregio perché nato in una colonia latina ma con civitas sine suffragium, oppure di grado ancora inferiore in fatto di diritti: eri nato in una città latina a cui Roma aveva concesso solo lo jus latii e cioè non pagavi le tasse. Per carità, sempre meglio che non essere romano, ovviamente. Perché ai popoli latini sconfitti da Roma dal 380 aC in poi vennero riservati trattamenti spaventosi. Quando i romani riuscirono finalmente a sconfiggere Antium, l’ultima città laziale che, grazie alle sue flotte piratesche, ancora le resisteva, imposero la loro supremazia tagliando ambedue le mani a tutti gli abitanti maschi, anche ai bambini! E poi, naturalmente, la rasero al suolo. Nessuna meraviglia quindi se alcune città si “donarono liberamente" a Roma. Capua, per esempio, decise con un plebiscito di diventare romana in tutto e per tutto e, nonostante la distanza, diventò un “quartiere” di Roma. La sua peculiarità fu sottolineata dalla costruzione dell’Appia “appaltata” ad un censore, Appio Claudio Cieco, e non ad un console! La regina viarum sancì il diritto degli abitanti di Capua di fregiarsi del titolo di romani. Sì, però, con il solito distinguo visto che non erano romani de Roma: non potevano ricoprire cariche pubbliche, non erano cittadini romani a tutti gli effetti, non appartenevano alla comunità politica romana, non potevano avvalersi dello jus civile, del diritto romano per eccellenza. Dovevano passare ancora qualche centinaio di anni perché questi diritti venissero concessi anche agli "altri". Persino Cesare ebbe dei problemi in questo senso, ma questa è un’altra storia. Il bello è che, ancora oggi, frequentando gli abitanti di Roma può capitarti che qualcuno ti dica : “Aho’, guarda che io so’ romano de Roma!” e poi specifica : de Campo Marzio, de’ Trastevere, de la Piramide ecc.. E sostanzialmente intende affermare un diritto a vivere in questa grandissima città un po’ più da padrone di te che magari vieni da Napoli! Ma non è razzismo, è l’esercizio di un diritto antico di gente che da circa 2.000 anni è abituata a coabitare con tanti altri. A Roma sono tutti tolleranti, al limite del me ne freghismo, ma i cives romani si contano ormai sulla punta delle dita!

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