“La questione morale è il centro del problema italiano”
Oggi Enrico Berlinguer compirebbe novant'anni. Pubblico
integralmente l’intervista rilasciata a Repubblica, a Eugenio Scalfari, nel 1981. Sembra che abbia non più di qualche giorno, tanto è attuale. Un’analisi dell’Italia di allora che è condivisibile appieno oggi. Sembra lunga,
ma scorre che è un piacere (e anche una disperazione).
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita.
Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma
i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono
soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza
della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi
pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più
disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun
rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli,
senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è
ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo,
formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono
piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un
"boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti
è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania,
Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in
Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo
stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione
dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le
sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli
enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali,
gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio,
oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della
Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi
impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così
brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe
lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni"
che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere
vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della
corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso
se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela;
un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una
cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i
beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche
quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla
situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in
gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani
sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne
accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di
risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono
benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei
favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto.
Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali
dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non
riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli
italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni
politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non
coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e
interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da
questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia,
ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un
paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al
sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli
operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia,
anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette,
signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei
descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire
persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente
contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io
credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un
partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano
timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra
conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei
missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con
chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei
capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò
per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero
non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti
cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra
Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione;
e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più
numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di
opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente
l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le
sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada
combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli
svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di
contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni
sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad
altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la
partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba
essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono
tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le
fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo
dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci
siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate
con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato
emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni,
di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al
terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e
sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e
disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i
modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e
centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa
mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia
insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo
ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme
capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema
imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba
discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come
sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di
emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale
crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del
rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un
delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto
può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa
essere paragonato ad un socialdemocratico.
Beh, una differenza sostanziale esiste. La
socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata
degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli
emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti
gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica
socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in
tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella
socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti
socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da
essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio
il socialismo...
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci
segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia
produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed
economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e
rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono
una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la
tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una
condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti
laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che
davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto
al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele
per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti
e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare
e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci
soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di
politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente
se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte
c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e
dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno
finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra
partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del
dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e
senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione
morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel
fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere
della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e
bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa
tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle
loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la
concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente
abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro
del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere
forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione
morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare
veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la
democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di
soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo
occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in
questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i
paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del
medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il
principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali
non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio
della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai
a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare
l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una
disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti
in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
La “minaccia rossa”
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea
dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto
con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del
partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale
esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma
anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione
economica dei paesi industrializzati -di fronte all'aggravamento del divario,
al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio
e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non
consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la
"civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono
intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno
dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma
dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere
gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui,
rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e
nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto
contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia,
ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di
rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare
l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più
parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il
problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla
recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni
al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da
dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato
e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della
produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono
sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai
lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai
difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla
gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e
la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non
ci sono, l'operazione non può riuscire.
(Da La Repubblica, 28 luglio 1981) - tratto da www.metaforum.it