sabato 28 maggio 2011

La lettera di un assassino, la lettera di un uomo

(clicca per ingrandire)

Vale la pena di trascriverla tutta, questa lettera di Santino Di Matteo al “Parlamento della Legalità”. Toccante, a tratti struggente, è la prova certa che una bestia può diventare un uomo.

Al Professore Nicolò Mannino, presidente del Parlamento della Legalità - San Cipriello (Palermo)

Caro Professore,

ho saputo che il Parlamento della legalità si è fatto promotore di un concorso rivolto ai ragazzi dedicato alla memoria di mio figlio Giuseppe.
Sono felice che da tanto dolore possa nascere qualcosa di buono.
La foto di mio figlio che sorride è appesa in casa mia, ogni volta che la guardo è come il giorno in cui ho saputo che era stato ucciso.
A volte mi fa pensare agli anni in cui ero prigioniero del buio, dove non riuscivo a capire da che parte stavano le cose giuste e la morte camminava con me.
Tanti anni fa ero una persona cattiva, capace di fare del male, mi sentivo come un soldato in guerra che doveva eseguire degli ordini, ma non capivo che erano gli ordini di persone malvagie, capaci solo di ordinare uccisioni, stragi e provocare tanto dolore.
Ricordo che una volta tornando a casa dopo aver seminato la morte mi sono trovato davanti Giuseppe e ho sentito come mi avessero dato un violento pugno in faccia.
Un padre che fa del male deve anche subire lo sfregio di dover abbassare gli occhi davanti al proprio amato figlio.
Poi ho trovato la forza di capire da che parte stanno le cose giuste, ho lasciato quelli che erano i cattivi amici e sono passato dalla parte dello Stato.
Ho detto tutto quello che sapevo sugli omicidi, sulle stragi, sui progetti di morte che dovevano essere compiuti.
Ho salvato delle persone dalla sentenza di morte che aveva pronunciato contro di loro quella che gli altri chiamano mafia, ma che per me erano solo “le cose serie”, ho contribuito a far arrestare e condannare decine di mafiosi, ho aiutato i buoni a vincere sui cattivi.
Certo, questo non cancella il male che io ho fatto, ma ha fatto sì che tanto altro male venisse cancellato. Per questo mi hanno strappato dal cuore quella creatura innocente che è Giuseppe.
Pino Nazio, che ha raccolto il mio racconto e l’ha messo nel libro “Il bambino che sognava i cavalli”, mi ha portato alcuni dei lavori che i ragazzi hanno fatto per partecipare al concorso per Giuseppe “Cavalcando la libertà”, ho visto i disegni, i cartelloni, ho letto le loro lettere.    
E’ anche per loro che ho trovato la forza di scrivere questa lettera, per centinaia di ragazzi che dedicano cose meravigliose a mio figlio, per tante persone che non dimenticano il suo sacrificio.
Oggi sono un’altra persona, per questo posso prendere la penna e chiedere perdono.
Perdono a chi?
Perdono a Dio, perdono a tutti coloro a cui ho provocato del male, ai parenti delle vittime, perdono a Giuseppe, perdono ai miei familiari che ho coinvolto loro malgrado nel mio calvario.
Quando mi chiamavano “uomo d’onore”, ero rispettato e temuto, in realtà ero solo una macchina di morte.
Quando ripenso alle cose che ho fatto per la preparazione della strage di un uomo giusto come Giovanni Falcone, alle prove dell’esplosione, allo studio del percorso sull’autostrada che porta a Capaci, al trasporto del tritolo che ha spezzato in un attimo cinque vite, piango lacrime di pentimento.
E sono contento che la sorte mi ha evitato di essere lì il giorno in cui l’autostrada è esplosa a Capaci: secondo alcuni non ero più affidabile per l’organizzazione e hanno deciso di tenermi fuori. E’ vero, ero diventato inaffidabile per i mafiosi perché mi rendevo conto che tutto quel sangue era senza senso.
Caro Nicolò, voglio mettere nelle tue mani questo pentimento perché so che il tuo lavoro con il Parlamento della Legalità serve a portare un messaggio di speranza e di solidarietà tra i giovani.
So che nei vostri incontri c’è sempre un momento che viene dedicato al ricordo di mio figlio Giuseppe che nessun uomo malvagio può sciogliere e portar via.
Anzi, Giuseppe è ormai diventato un simbolo della lotta alla mafia per i tanti uomini che ha fatto condannare e perché ha fatto capire a tutti che “Cosa nostra” non risparmia donne e bambini.
I figli sono figli e non si perdono mai, nessuno te li ammazza per sempre e Giuseppe sarà vicino a me fino a che vivrò.
Sto scrivendo del mio pentimento sapendo bene chi ero e chi sono, sapendo che non è vero che con la morte finisce tutto, che il Parlamento sta facendo parlare Giuseppe, sta intitolando delle sedi a mio figlio, come a lui sono stati dedicati giardini, aule, centri equestri.
Ho girato pagina, voglio sperare che nessuno faccia più quello che ho fatto io quando ero accecato dal buio, ma voglio dire a tutti quelli che ancora non vedono che non è mai troppo tardi per chiedere perdono, per smettere di fare del male.
Voglio fare un appello a tutta la gente di Sicilia che vuole vivere libera dalla paura di non smettere di battersi per ostacolare i mafiosi e i prepotenti.
Voglio che questa lettera ti arrivi il giorno in cui premiate i lavori più interessanti dedicati a mio figlio Giuseppe e se lo ritieni giusto potrai leggerla in pubblico, per farla arrivare a tutti i partecipanti, insieme al mio saluto, alla mia esortazione a non diventare come ero io.
Un abbraccio,

Santino Di Matteo, 22 aprile 2011
   
Quest’uomo non finirà mai di pagare; l’immagine di suo figlio bambino l’ha condannato a vita.
Voglio dire ai sostenitori della pena di morte: riuscite a immaginare una pena più severa di questa? Un’esecuzione che dura tutti i giorni, le ore e gli attimi di quello che resta da vivere?
Io, da quest’uomo, ora, mi aspetto solo bene.

sabato 21 maggio 2011

A che servono la Luna, Giove e le stelle?

Justus Sustermans - Galileo Galilei - National Maritime Museum - Greenwich

Un mio amico, che stimo come decisamente intelligente, non può farsi una ragione del perché l’umanità debba spendere quantità astronomiche di denaro per l’esplorazione dello spazio. Con tutti i problemi che abbiamo sulla Terra, con tutte quelle bocche da sfamare, con tutti quei popoli vittime di conflitti e carestie da soccorrere, cosa ce ne può mai fregare di andare su Marte a scoprire se c’è o c’è stata una molecola d’acqua o una cellula vivente sotto quella sabbia rossa? Gli affamati, i diseredati, gli ultimi degli ultimi, che beneficio ne avranno?    

La domanda è giusta. Come uomini del nostro tempo globalizzato, molto informati sulle miserie del mondo, siamo tentati di andare alla Nasa, chiudere tutti gli scienziati in uno stanzino, farci consegnare i portafogli e impiegare meglio quei soldi.
Io intuisco una risposta ma mi è molto difficile formularla e ci sto pensando da tempo. In fondo, la risposta a questa domanda è la ragione stessa dell’esistenza di questo blog.
Io non posso fermarmi nel mio tendere alla conoscenza (e cioè all’ampliamento della mia ignoranza), ce l’ho scolpito da qualche parte nel mio codice genetico. In un post precedente ho già sostenuto che, come specie, l’uomo ha l’obbligo di adottare la conoscenza come strategia di sopravvivenza. Adesso vorrei far contribuire alla risposta Galileo Galilei.

Galileo, l’indimenticato attaccante della Dinamo Universal FC (se vi suona pazzesco è perché non avette letto questo), fa dire a Simplicio, il rappresentante un po’ babbeo della Dottrina, il difensore dell’immutabilità della stessa, durante la prima giornata del Dialogo:

Perché noi chiaramente veggiamo e tocchiamo con mano, che tutte le generazioni, mutazioni, etc. che si fanno in Terra, tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indirizzate all’uso, al comodo ed al benefizio dell’uomo; per comodo de gli uomini nascono i cavalli, per nutrimento de’ cavalli produce la Terra il fieno, e le nugole l’adacquano; per comodo e nutrimento de gli uomini nascono le erbe, le biade, i frutti, le fiere, gli uccelli, i pesci; ed in somma, se noi anderemo diligentemente esaminando e risolvendo tutte queste cose, troveremo il fine al quale tutte sono indirizzate esser il bisogno, l’utile, il comodo e il diletto de gli uomini. Or di quale uso potrebbe esser mai al genere umano le generazioni che si facessero nella Luna o in altro pianeta?  
  

Aggiungo: a che serve un albero che non dà frutti? E a che servono le zanzare? E i pipistrelli che mangiano le zanzare? Non facevamo prima a non avere né zanzare né pipistrelli?
Sempre nel Dialogo, in terza giornata, troviamo la risposta che Galileo mette in bocca a Sagredo:

Io stimo una delle maggiori arroganze, anzi pazzie che introdur si possano, il dire: ”Perch’io non so a quel che mi serva Giove o Saturno, dunque questi sono superflui…”; mentre che, oh stoltissimo uomo, io non so né anco a quel che mi servano le arterie, le cartilagini, la milza o il fele [cistifellea, ndr], anzi né saprei d’avere il fele, la milza o i reni, se in molti cadaveri tagliati non mi fussero stati mostrati, ed allora solamente potrei intender quello che opera in me la milza, quando ella mi fusse levata.

Forse possiamo trovare un’ispirazione in Aristotele, che nel Discorso sull’Anima afferma:

La natura non fa nulla inutilmente, non manca del necessario e non abbonda di superfluo.  

Credo che in questa frase ci sia tutta la risposta. Sappiamo che tutto quello che esiste in natura serve, nella maggior parte dei casi non sappiamo a cosa. Anzi, più scopriamo e più le domande crescono in progressione geometrica. Più scopriamo e più si allontana la scoperta del fine ultimo del tutto. Di conseguenza, e per fortuna, a questa risposta l’umanità non arriverà mai. 

Oggi sappiamo, ma Galileo non lo sapeva ancora, che se con una bacchetta magica facessimo sparire Giove e Saturno la Terra sarebbe immediatamente risucchiata all’interno del Sole, a causa dello spostamento del centro di gravità del sistema solare.
Cavolo se ci servono, Giove e Saturno.  

Abbiamo letto l’opinione antropocentrica di Simplicio sull’utilità della natura e la maggior parte di noi ne è rimasta esterrefatta. Ma così non sarebbe stato quattro secoli fa, quando le sue affermazioni non avrebbero destato alcuna meraviglia. Perché?
Perché, mio caro amico scettico sull’esplorazione dello spazio, oggi ne sappiamo molto di più, siamo cambiati. Abbiamo decentrato l’uomo nell’Universo, sappiamo di contare come il due di briscola.
Con l’incremento della conoscenza aumenta la saggezza, quella virtù che ci fa ragionare sempre in grande nel tempo e nello spazio, che non ci fa pensare solo alle bocche da sfamare oggi ma a tutte le bocche possibili future.
Perciò, io su Marte ci vado.

domenica 15 maggio 2011

Il bombo fa discutere la scienza (ma lui se ne frega)


Diciamoci la verità, gli insetti simpatici sono pochi. A me vengono in mente le farfalle, le coccinelle e sopra tutti, il bombo: questo buffo micro-peluche che vola indaffaratissimo da un fiore all’altro in tutti i giardini. Mi è così simpatico che non mi stanco di osservarlo, mi piacerebbe diventare suo amico ma lui di me se ne infischia, credo che non sappia neanche che esisto, sigh. E non sa neanche che si è molto discusso di lui in ambienti accademici, e se ne discute ancora.      

La querelle scientifica sul bombo inizia, a quanto pare, nel 1934 quando l’entomologo Antoine Magnan scrive nel suo libro Il volo degli insetti: “spinto dai calcoli che si fanno in aviazione, ho applicato le leggi della resistenza dell’aria e sono arrivato alla conclusione che il volo del bombo è impossibile”.
In effetti, osservando l’apertura alare del bombo in rapporto alla dimensione della “fusoliera” anche un profano rileva che le ali sono apparentemente troppo piccole:


La discussione sul volo del bombo è continuata per decenni, al punto che il celebre ingegnere aeronautico Sikorsky, chiamando il bombo erroneamente calabrone, afferma:
“Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica di aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare”.

E’ vero, il bombo non sapeva. Ma chi sapeva meno di tutti era l’uomo: aveva inventato un aggeggio che vola, l’aeroplano, e poi, con un’operazione che oggi si chiamerebbe di “reverse engineering”, cioè tentando di risalire dalle ali del bombo ai calcoli necessari per costruirle, aveva semplicemente concluso che è impossibile fabbricare un bombo e farlo volare. La stessa sicumera tecnologica con la quale si era affermato che il Titanic non sarebbe mai potuto affondare.

Ma la natura ha affondato il Titanic e fa volare il bombo, e per fortuna la vera scienza non si accontenta. Diversi scienziati continuarono a pensare al bombo e sapevano che prima o poi, con i giusti strumenti d’indagine, sarebbero riusciti a capire. Fu negli anni ’50 e ‘60 che si poté cominciare a osservare al rallentatore il volo del bombo (la frequenza del battito è così alta che l’osservazione al rallentatore richiede apparecchiature molto sofisticate) e scoprire che il movimento delle ali è estremamente complesso: non battono solo dall’alto in basso, come quelle degli uccelli, ma ruotano anche su loro stesse avanti e indietro, come quando noi allarghiamo le braccia e facciamo ruotare in nostri polsi velocemente in un senso e nell’altro. Se poi contemporaneamente facciamo su e giù con le braccia, ecco, più o meno questo è il battito d’ala del bombo.     
Negli anni ’90, quando si comincia a sviluppare la tecnologia necessaria a progettare i Micro Air Vehicles, i micro-robot volanti (ovviamente di forte interesse militare), il mistero è svelato completamente. Il bombo vola grazie a un approccio misto aereo-elicottero, sfruttando le turbolenze create dal moto composto delle ali, che creano dei vortici che lo tengono su. Tant’è che il bombo artificiale è stato già progettato e simulato al computer:


Carino il micro-giocattolo, ma volete mettere il micro-peluche originale? Lui continua a volare imperturbabile e lo fa da quando noi non eravamo neanche in mente Dei.
Il bombo non può diventare mio amico perché non ha il cervello, ma io posso diventare amico suo, soprattutto ragionando non più in termini d’individuo ma di specie.
Le specie hanno tutte gli stessi diritti, e tutte il dovere, scritto nel codice genetico, del rispetto reciproco. Noi, la specie più sofisticata, facciamo fatica a capirlo.
Non sembra affatto, anzi, che facciamo progressi in questo senso. Ma se il bombo muore, non chiediamoci per chi suona la campana.         

sabato 7 maggio 2011

Addio iPad, benvenuto Kalashnikov


Caro Barak,

è tutto sbagliato e tu lo sai. Non c’è bisogno che te lo dica io che le scene di giubilo davanti alla Casa Bianca ricordano molto quelle mediorientali con i mitra e i bazooka puntati al cielo. Non c’erano mitra, c’erano solo dita a V ma l’effetto era lo stesso.

Hai raccontato che prima dell’azione ti sei preso una notte di riflessione. Hai ritenuto di fare la scelta meno sbagliata, hai scelto la ragion politica a scapito del diritto. Forse, però, non hai valutato tutto.

Forse quella notte la prima cosa che ti è venuta in mente è che al terrorismo si deve contrapporre lo stato di diritto, non la legge del taglione né la spada biblica. L’hai studiato, i tuoi buoni maestri te l’hanno detto. Un processo è la giusta risposta alla cultura della violenza. Elementare, Watson.
E’ un buon principio, ma lo stato di necessità può condurre anche un bravo leader a una deroga.
E la necessità, anzi l’assoluta obbligatorietà di scegliere il bene dell’America e del mondo (perché è questo che hai pensato) ha generato la deroga.     

Quella notte tu hai pensato alla tua rielezione che è fortemente in dubbio. Sai bene di portare nel tuo nome e sulla tua pelle lontani riflessi poco americani, sai bene che il tuo popolo è troppo ignorante e sai ancor meglio che i repubblicani si attaccano a qualunque inezia su di te per indebolirti.
Poi sai anche benissimo di essere molto migliore di quel minus habens del tuo predecessore, e di questo tutti i normo-pensanti del mondo ti danno atto, così come delle tue battaglie sociali.

Probabilmente ne hai concluso che è troppo importante per l’America e per il mondo che tu sia rieletto, pazienza se rischiamo un’orribile vendetta di al-Qaida.
Hai pensato che la cattura ed il successivo processo a Bin Laden sarebbero stati troppo pericolosi. Sarebbe durato molti mesi durante i quali ogni virgola e soffio di vento sarebbe stato oggetto di speculazioni dei tuoi avversari. No, non potevi rischiare. E questo ti ha portato alla scelta, secondo te, meno sbagliata.

Secondo me, invece, la più sbagliata. E se io dovessi malauguratamente avere ragione, il prezzo da pagare è ben più alto della tua mancata rielezione o dell’eventuale vendetta terroristica.
Quella notte c’è qualcosa che non hai pensato. Non hai pensato che da cinquant’anni il mondo intero si abbevera alla “cultura” americana; forse tu non lo percepisci come lo percepiamo noi europei.
E’ la merce di gran lunga più esportata dal paese a stelle e strisce: economia, politica, abitudini, gusti, consumi, perfino l’arte. Se una cosa l’hanno fatta gli americani vuol dire che si può fare. Se una cosa viene dagli USA, è buona.
E qualche giorno fa noi abbiamo importato un’idea nuova che ci sorprende ma è buona e giusta, perché è americana: addio iPad, benvenuto Kalashnikov

  

domenica 1 maggio 2011

Il nonno e il suo Tempo


Chiedendo venia ai pochi che l'hanno già letto, ripubblico un racconto che ho scritto diversi anni fa. Lo dedico alla mia mamma che ci ha lasciato da qualche giorno, a mia sorella e a mio fratello. 

Il grande padellone d'oro va di qua e di là una volta al secondo, lucido come uno specchio. Una volta al secondo mi passa davanti al naso e riflette la mia immagine; da sempre, anzi da prima ancora. L’unica differenza è che adesso devo sedermi a terra per riuscire a vedere il mio viso riflesso nel pendolo, com’era quando da bimbetto venivo in questa casa. Non riesco ad immaginare queste stanze senza il familiare toc… toc…, quello che sentivo nel primo pomeriggio, la casa silenziosa, quando il nonno era a letto a riposare; o quando durante i pranzi di Pasqua e Natale, parenti al gran completo, mi facevano recitare la poesiola imparata a scuola e l’unico pum pum che sovrastava la pendola era quello del mio cuore.
Da tempo immemorabile il pendolo oscilla senza fermarsi mai, guerre, nascite e morti, fortune e sfortune, toc… toc...
L’unico al mondo che può dare la corda alla pendola è il nonno. La chiavetta della carica è lì, la vedo, appoggiata nel mobiletto; oggetto sacro. Anatema e sventura a chi osa toccarlo. Il rito della carica era seguito da tutti noi nipoti, da bambini; trovarsi a casa del nonno nel momento fatidico della carica era una fortuna da raccontare agli altri cugini:
“Ecco ragazzi… attento, Andrea! …Tu mettiti qui, tu là, così. Dunque, quest’orologio ha tre motori, il pendolo governa solo quello principale che controlla gli altri due…”
Non ci capivamo niente ma le nostre bocche restavano aperte mentre il nonno manovrava l’orologio del mondo, la rotazione della terra e il nostro respiro. L’evento straordinario che tutti noi ricordiamo fu il guasto della suoneria, avevo forse tredici anni. Per settimane si parlò di un mitico tecnico che sarebbe venuto da non so dove per recarsi al capezzale della pendola del nonno: la pendola aveva il cuore forte ma non suonava più. Il nonno aveva parlato con mezzo mondo al telefono per trovare il dottore giusto; alla fine fu tutto a posto: il solenne rintocco segnò il risveglio alla vita della pendola e del nonno. Tutti capimmo che s’era superata una crisi di quelle importanti. Pendola a posto nonno a posto.
Il mio super orologio da polso che spacca gli atomi del tempo dice che la pendola è avanti di due ore e un quarto; non ricordo di averla mai vista segnare un orario plausibile. Risento la mia voce di bambino:
“Nonno, perché la pendola è sempre fuori tempo?”
Chi te l’ha detto?
“Il segnale orario…”
“Lascia perdere Valerio, non ti fidare. E poi il tempo è quello che vuoi tu, non quello che vogliono loro. Fuori tempo è solo colui che non sa riconoscere il battito del suo cuore.”
Questo concetto lo ricordo affermato molte volte, a tutti diceva che il tempo è quello della sua pendola, tanto che mio cugino aveva detto una frase destinata a restare famosa in famiglia:
“Sono le quattro e un quarto ti-emme-enne, Tempo Medio del Nonno”.
Tra l’altro, il nonno non aveva mai voluto sentir parlare di ora legale, non esisteva:
“Preferisco rimanere all’ora illegale, come i galli. Secondo i violentatori del tempo, d’estate i galli cantano più tardi, il che è palesemente falso e ridicolo, quindi hanno ragione i galli. Ergo, per la proprietà reciproca della colpa, ha torto chi ci governa. Ma tanto, voi ragazzi avete mai sentito un gallo cantare?”
Puntualmente ogni giorno d’estate si lamentava che il telegiornale era in anticipo, che tutti erano impazziti, rimproverava il portiere perché chiudeva il portone troppo presto. Il giorno del ritorno all’ora solare affermava:
“La follia è temporaneamente sospesa.”       

Toc… toc… oggi il nonno è di la che muore, novantaquattro anni. Solo tre giorni fa ha dato la corda alla pendola, poi di sera si è sentito male. Figli, nipoti e pronipoti siamo tutti qui a casa del nonno che muore e io sono seduto per terra a domandarmi chi darà la corda alla pendola. Potrei essere io ad avere l’investitura, anche se non sono il primo nipote? Prima del nonno, chi curava la pendola del milleottocentodiciannove e dava il tempo al mondo?
“Valerio! Ma che fa un uomo della tua età seduto a terra come un bambino a guardare un orologio, sei impazzito? Il dottore è andato via e non l’hai neanche salutato!”
“Che ha detto?”
“Che non arriverà a stasera.”
“E’ nella logica delle cose. E la pendola?”
“Sei il solito cinico insensibile. Tuo nonno, bada bene, il tuo e non il mio, muore e tu pensi alla pendola. Mi vergogno per te.”
“Ti ricordi per caso quanto dura la carica? Sette o nove giorni?”
“Sei un mostro!”
Quest’ultima affermazione viene sottolineata da uno di quei dietro-front che fanno svolazzare la gonna di mia moglie e con i quali Luisa intende troncare, due o tre volte al giorno, ogni rapporto con me. Devo andare a vedere il nonno che muore? No che non ci vado. Sento vociare in cucina, stanno facendo il caffè, il classico caffè corale pre-funebre, andiamo a vedere.
“Oh, Valerio, hai finito di contemplare la pendola? Abbiamo capito che ne sei innamorato, ma non è detto che sia tua! Dai, prendi il caffè con noi.”
“Il problema, zia Franca, non è di chi sia la pendola, ma chi la farà funzionare.”
E’ mio cugino, il leader efficientista megadirettore Gianfranco che interviene:
“Siamo veramente disperati per il problema della pendola, Valerio, come puoi immaginare. Una volta tanto scendi sulla terra e degnati di parlare con noi dei problemi veri, per esempio delle tasse di successione che ci piomberanno sulla testa.”
Non sono mai stato capace di dire tutto quello che penso di questo, mio malgrado, parente. Ci provo:
“Primo, il nonno è vivo. Secondo, fra circa una settimana quella pendola si fermerà, e sarà la prima volta in cent’anni, credo. Mi piacerebbe che si fermasse insieme al cuore del nonno, ma purtroppo questo succede solo nelle fiabe. So che non ti fa nessun effetto ma per fortuna non siamo tutti come te. Vero?” Il mio sguardo gira intorno a cercare sostegno, ma prima di scoprire di non averne trovato molto arriva mia madre, è molto commossa:
“Valerio, il nonno vuole te, deve darti qualcosa. Vuole anche tutti voi, venite.”
Il nonno respira in fretta e male, è lucido ma non parla; con fatica muove gli occhi e le dita. Siamo tutti intorno al suo letto, in attesa di qualcosa. Quando anche l’ultimo di noi è entrato il nonno fa un cenno a mia madre, che apre un cassetto dello scrittoio: ne trae una busta ingiallita che appoggia delicatamente nella mano del nonno.
C’è un lunga pausa, una sospensione totale di ogni sussurro e quasi di ogni respiro. Toc… toc… toc… si sente fin qui. Credo che il nonno voglia farmi leggere il suo testamento, non so perché debba toccare a me. Infatti, dopo alcuni secondi lunghi un’eternità, è me che il nonno guarda, mi chiede con lo sguardo di avvicinarmi. Guarda me e guarda la busta. Devo prenderla e aprirla, lo so.
Non ho mai vissuto un momento così solenne, sono veramente commosso; Gianfranco guarda il suo orologio. Apro maldestramente la busta, ne tiro fuori un unico foglio ingiallito e leggo una data: 4 aprile 1963. Il nonno ha scritto il suo testamento così tanto tempo fa? Mi pongo la domanda guardando gli altri, ho un attimo di smarrimento, Luisa non resiste:
“Che c’è, Valerio? Vai avanti, leggi.”
“Sì, dunque…” La seconda riga è ancora più stupefacente perché leggo:
Caro Valerio…”
Mi fermo di nuovo, stavolta veramente non capisco. Non è il testamento.
“Nonno, è una… lettera per me?”
Lo sguardo è affermativo.
“Nonno, devo leggerla ad alta voce?”
Di nuovo sì, stavolta intuisco fretta. Guardo un’ultima volta i presenti dagli sguardi spazientiti e comincio a leggere:

Caro Valerio,
mentre scrivo questa lettera hai undici anni. Se le cose sono andate come io spero e se la sorte non ci ha troppo allontanati, ora che la leggi dovreste essere tutti riuniti davanti al mio letto di morte.”
Ho un nodo alla gola, faccio un colpo di tosse e vado avanti:
"Questo non è un testamento, a quello ci pensano le leggi, ma una consegna per te che dovrai rispettare ad ogni costo. Ti ho osservato molte volte mentre contempli la mia pendola e ho visto nei tuoi occhi molto di più della semplice curiosità di un bambino. Non hai mai tentato di aprirla, non le hai mai mancato di rispetto, l’hai sempre difesa dall’invadenza dei tuoi coetanei. Hai riflettuto a lungo su di essa e su quello che rappresenta; nessun altro mi ha mai fatto tante domande sulla pendola e sul tempo come te.
Per questo sarai tu il custode della pendola e il depositario del Tempo: quello che, tu lo sai come me, esiste davvero. Insegnerai ai tuoi figli e nipoti come il Tempo è quello che hai dentro; come, a dispetto della necessità di uniformarsi ad un tempo comune ed inventato, l’unico ritmo di cui hai veramente bisogno è quello del tuo cuore e del tuo pensiero.
Per quello che io ne so, l’orologio non si è mai fermato dall’11 ottobre 1889, e tu, come un’antica Vestale, dovrai far sì che non si fermi mai, impedirai ogni danno alla pendola e non dovrai mai accordarla con nessun altro orologio. In ultimo dovrai preoccuparti di chi prenderà il tuo posto. 
Immagino che qualcuno dei presenti stia ridendo del vecchio nonno rincitrullito; a loro vorrei dire che ho voluto dare solennità a questo passaggio di consegne proprio perché solo in questo modo, spero, nessuno avrà il coraggio di contraddire questa mia volontà. Tutto questo può essere interpretato secondo gli schemi usuali, quelli pensati e messi in atto da altri, e condurre alla conclusione che mi manca una rotella. C’è invece chi sente il battito dell’universo, il Tempo al di sopra del tempo, chi non riesce mai ad adeguarsi a certe invenzioni e convenzioni, chi le sfida per tentare di arrivare alla verità; rispettate il pensiero che viene dai sogni, perché è solo attraverso di questo che si può elevare l’essere umano.
Ho fatto il mio Tempo, a voi fare il vostro.

“Nonno…”
Ma il nonno non sente più. E’ Gianfranco che interrompe il silenzio del nostro lungo momento di commozione:
“Certo, bisogna dire che il nonno ha trovato il matto giusto, vero Valerio? Ti aveva capito fin da bambino.”
“Anch’io avevo capito lui, impresa che non è mai stata alla tua portata.”
“Mah. Io ho un impegno e devo andare, torno più tardi.”
“Appunto.”

Subito dopo la morte del nonno, ormai sei mesi fa, mi sono trasferito in quella casa con la mia famiglia.
Toc… toc… toc… destra, sinistra, destra, il padellone d’oro non si è mai fermato. Il Tempo del nonno non è ancora finito.