sabato 4 febbraio 2012

Una satira di duemila anni fa

Claudio diventa imperatore di Lawrence Alma-Tadema

Avete presente l’espressione della Carfagna? Quello sguardo carico di meraviglia che le si è stampato in faccia ad aeternum quando le hanno detto che era diventata ministra?

“Io?”

Lo stesso sguardo si deve essere stampato in faccia all’imperatore Claudio quando scoprì che, suo malgrado, lo era diventato.
Siamo nel 41 d.C. e Claudio, considerato un fesso matricolato dai suoi contemporanei (e anche da sua madre Antonina, che lo aveva definito “uno stupido mostro”), è l’ultimo rampollo rimasto in vita della dinastia giulio-claudia, proprio perché considerato innocuo e quindi scampato ai massacri di Tiberio e Caligola contro quella famiglia.
Il Senato si vede costretto a nominarlo imperatore, e la cosa non dispiace ai senatori più di tanto, un pupazzo da manovrare a piacimento.
Ci racconta Svetonio che Claudio cercò di nascondersi dietro una tenda ma fu trovato da un soldato che gli si inchinò salutandolo imperatore. Il momento poco edificante è ritratto nel quadro che vedete in alto.   

Cotanto uomo di Stato fu sempre irriso dalla nobiltà romana e anche dalla plebe; in particolare non gli perdonavano di non saper parlare in pubblico: nessuno capiva i suoi discorsi che somigliavano molto a quelli di alcuni nostri amati esponenti politici.  


In realtà, almeno secondo gli storici, l’impero di Claudio non fu poi tanto male: furono emanate molte nuove leggi e la politica estera fu alquanto giudiziosa.
Ma certo è che all’epoca nessuno avrebbe speso una buona parola per il povero imperatore, il quale fu oggetto di frizzi e lazzi di ogni genere. Tra questi una sorprendente satira del mio amico Seneca che, come tutti i saggi, sapeva ridere e far ridere.

Ma prima di parlare della sua satira, dobbiamo fare un passo indietro e parlare della consuetudine dell’apoteosi, la trasformazione in divinità dell’imperatore defunto.
Dopo l’assassinio di Giulio Cesare, evento che colpì profondamente il popolo di Roma, il Senato decretò l’apoteosi: il compianto imperatore fu ammesso nell’Olimpo come divinità e l’avvenimento fu sottolineato da una performance popolare che consisté nel bruciare in pubblico una statua di cera dell’imperatore, a simboleggiare la sua assunzione in cielo. Da quel momento Giulio Cesare assunse il titolo di divus.
Questa tradizione continuò con quasi tutti gli imperatori, con poche eccezioni per quelli che si erano macchiati di particolari nefandezze (per esempio Nerone e Caligola) o erano stati colpiti dal decreto di damnatio memoriae (per esempio Commodo, vedi qui).  

Roma - apoteosi di Antonino Pio, base della Colonna Antonina

Dunque Lucio Anneo Seneca ci racconta, nel suo libretto “Apokolokyntosis” della “zucchizzazione” dell’imperatore Claudio, la sua trasformazione in zucca.
Il racconto comincia con il momento del trapasso; l’imperatore scorreggia con gran clamore e pronuncia le sue ultime imperiali parole: “Oddio, mi sono cagato addosso”. 

Giunto nell’Olimpo, viene ammesso a colloquio con Giove il quale gli chiede chi sia e che cosa voglia. Il povero Giove non capisce niente della risposta di Claudio e allora lo manda a parlare con gli altri dèi, ma con identico risultato.
Bellissima l’immagine di Claudio che assiste dall’Olimpo al suo funerale e “capisce finalmente di essere morto”.
L’intero Olimpo si sforza di capire chi diavolo sia il nuovo arrivato, senza riuscirci. Alla fine, nell’infinita bontà degli dèi, Claudio è nominato segretario dell’anima di uno schiavo, tanto per non buttarlo fuori.

Peccato che l’aldilà non esista, nutrire la speranza della zucchizzazione della Gelmini sarebbe stato bello. Dobbiamo accontentarci della zucca in vita. 



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