sabato 16 ottobre 2010

Eutanasia: non so.


La sofferenza esiste, ci accompagna tutta la vita, pronta a toccarci; fa parte di noi, come l'ultimo e il più naturale degli eventi: la morte.
A volte ci tocca, ci ammaliamo, si ammala un nostro caro, ci affidiamo a qualcuno perché abbiamo il diritto di non soffrire, di guarire, di sopravvivere, di vincere la battaglia. Abbiamo il diritto di utilizzare tutti gli incredibili mezzi tecnologici che la medicina usa per sconfiggere il nemico.

Però, forse non parlerei oggi di eutanasia se la scienza avesse investito nella ricerca contro il dolore gli stessi mezzi che ha profuso nella lotta contro la malattia. La scienza medica sa sempre qual è il nemico da sconfiggere, oppure a volte scivola nella pericolosa presunzione di vincere la morte?
Il verbo patior latino, da cui ci arriva la parola "paziente" significa “soffrire”; e non per nulla è un verbo deponente (perdonatemi la digressione grammaticale): soffro e sono sofferto allo stesso tempo. E' condivisone, è compassione.
L’oggetto della medicina è quindi la sofferenza e la malattia, non la morte. La morte, gridiamolo forte, non è una patologia.    
 
A volte la battaglia per la vita la perdiamo, spesso lo capiamo prima degli altri. Poi il dolore fisico ci attanaglia e ci divora dentro, ci sentiamo così disperatamente soli nel dolore da perdere il lume della ragione, non c’è più nessuno che ci arrechi conforto, non c’è più nulla che valga, diventiamo puro dolore. Se questo è percepito come ultimo stadio della degradazione, si può arrivare a chiedere di morire.

C’è invece chi decide di non chiudere il libro prima di aver letto l’ultima pagina, c’è chi beve tutto l’amaro calice. Perché? Cos’è che fa la differenza? Perché non tutti i malati terminali che soffrono terribilmente chiedono di morire? Si potrebbe rispondere che la soglia del dolore è individuale e che non tutti sono eroi. Si potrebbe rispondere che a volte c'è la fede. Ma è solo questo?
No, io credo che qualcuno abbia fatta propria la consapevolezza di non poter disporre della propria vita perché non abbiamo vissuto da soli. La nostra esistenza è entrata a far parte di quelle altrui, di chi ci ha conosciuto veramente. Abbiamo condiviso noi stessi, e da questa condivisione non possiamo escludere la sofferenza.

Io davvero non so.

So però che non mi piacerebbe una legge che definisse dei parametri "oggettivi" in base ai quali si possa o non si possa chiedere di morire. E se il malato sentisse il dovere di giustificarsi davanti ai parenti e ai medici perché non ha deciso di morire? E se si cominciasse a parlare di silenzio-assenso? E se le assicurazioni malattia cominciassero ad esercitare pressioni davanti ad un letto occupato da un disgraziato in coma? E se qualcuno facesse notare che anche quel tale disabile totalizza pochino, solo uno 0.8?
       
E so che quando sarà il momento non saranno i nostri successi a venirci in mente, ma solo quanto abbiamo amato. So che il bilancio dell'amore non è mai in perdita. Sarà il momento di dare il massimo, sia che io mi trovi accanto ad un letto, sia che io sia dentro quel letto.

Come, ripeto, non so.

P.S:
le scarpe di Van Gogh mi sono sembrate una bella metafora di ciò che resta del percorso di un uomo. Non sappiamo se egli sia nel suo letto di morte o se sia già andato; sappiamo solo che non le indosserà più.

1 commento:

  1. Caro Ettore, sono d'accordo su quanto hai scritto, soprattutto mi piace il tatto, il garbo, l'attenzione e l'umanità che traspaiono dalle tue parole. Mi fanno paura quelle persone che, anche su questi temi, riescono a fare dibattiti urlati e si arroccano dietro a dogmi o sicurezze assolute. Non è così semplice, lo sappiamo (almeno questo lo sappiamo). Non posso che concludere citando le tue parole: il bilancio dell'amore non è mai in perdita. Fosse sempre una scelta d'amore a guidare i nostri destini!

    Vash Prjesident!

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